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Verso Santiago

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Giorno 552.

Quando sei in ritardo, corri. E noi siamo in ritardo, e di tanto. Un mese e mezzo di post non scritti, di pigrizia e mancanza di autodisciplina. E non avrebbe senso concludere il blog sei mesi dopo il rientro. Per questo, riassumo.

Dopo quasi due mesi di Patagonia, terre selvagge, camping, cibo in scatola, siamo un po’ stanchi, così iniziamo il pellegrinaggio verso Santiago, la capitale e la civiltà. Il primo pezzo e’ su strada, fino a Coyhaique. Un supermercato, qualche banca, wi-fi per avvisare che siamo ancora vivi. Ed un porto, da cui due volte alla settimana parte il traghetto pubblico che unisce l’estremo sud con l’isola di Chiloe’, sempre sud ma un po’ meno. Ci imbarchiamo, ed il viaggio di quasi due giorni e’ stupendo. Attraversiamo fiordi, costeggiamo vulcani dalle cime ghiacciate, facciamo soste in pueblos sperduti tra acqua e montagna, un po’ come in Liguria, solo che non c’è la strada dall’altra parte che ti porta a Genova o ad Alessandria. Qui i villaggi, si raggiungono solo via mare, e ad ogni tappa e’ un esodo di persone, cose e anche qualche animale. Dormiamo per terra, nel sacco a pelo, e per 30 ore ci succhiamo avidamente paesaggi da cartolina, tramonti infuocati e decine di balene che si avvicinano alla nave curiose, salvo poi allontanarsi veloci con lo spruzzo d’acqua che esce dalla schiena, come i treni nel West.

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Sbarchiamo nel cuore della notte. Ci addormentiamo in un osteria fantasma vicino al porto di Quellon, città altrettanto fantasma, serrande abbassate e gente sospetta che si muove circospetta. Forse e’ vero, come dicono le leggende locali, che a Chiloe’ vivono streghe e gnomi, che si divertono a rapire le vergini dei villaggi per placare i propri abnormi appetiti sessuali. Fortuna che mia moglie non rientra nella categoria. Per noi l’isola e’ una tappa veloce, sarebbe bello fermarsi, ma abbiamo voglia di Nord, di deserto. Un paio di giorni per vedere qualche gruppo sparuto di pinguini ritardatari che non si sono ancora decisi a migrare in Perù anche se la stagione lo richiede. La spiaggia da cui partono le lance dei tour organizzati e’ un circo turistico di famigliole in gita domenicale, ragazzi alticci ed una sagra della cozza in cui si gozzoviglia a colpi di zuppa di pesce. Ci sciroppiamo il tour sulla barchetta, già sapendo che sarà un pacco, date le circostanze, ma costa poco e ci lasciamo andare. I pinguini sono in effetti pochi, mentre di leoni marini ne e’ rimasto uno solo. Come l’ultimo dei Mohicani pare attendere impassibile, sotto i raggi del sole, che si compia la sua sorte.

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Poi e’ la volta di Pucon, una delle capitali degli sport avventura da pacchetto tutto incluso del paese, che attira turisti aspiranti Bear Grylls da tutto il mondo, soprattutto da Israele e Stati Uniti. E si nota dai prezzi, a misura di Gringos. Ci sarebbe un bel vulcano da scalare, ma il trip organizzato costa cento dollari, troppo per noi. Così quello che risparmiamo in avventura, ce lo mangiamo in uno dei migliori ristoranti della città, dove un cuoco di origini basche ci delizia con piatti fusion che mi fanno desiderare di essere un grande chef, che però cucini solo per se’ stesso e pochi eletti, no business, solo goduria ed edonismo allo stato puro. Le terme annesse al pranzo sono una delusione, ma sticazzi…

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Arriviamo velocemente a Santiago, in un bus notturno semivuoto e finalmente a prezzi bassi, la stagione turistica e’ finita e tutto rientra nella normalità. Giusto in tempo per dire addio alle nostre Salomon che, dopo 552 giorni di utilizzo sfrenato, ci lasciano per sempre, vittime dei chilometri percorsi, tutte bucate e praticamente senza suola. Compriamo scarpe nuove, ci riposiamo, facciamo la spesa al mercato del pesce, preparo ceviche altamente sperimentale e ritorniamo alla civiltà con una festa a sorpresa per il compleanno di Giulia, organizzata da Carla, argentina espatriata conosciuta in ostello. E siamo pronti a rallentare di nuovo.

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Dagli Appennini alle Ande

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Giorno 492.

Prima di lasciare Buenos Aires, diretti verso il sud del mondo, non avevo mai visto tanto spazio vuoto. La periferia della città scivola fuori dal finestrino nella luce del tramonto, un mare di condomini, palazzine, fili della luce che si intrecciano e si diradano poco a poco fino a lasciar posto a una distesa piatta e sterminata. La pampa arriva col buio. Il mattino seguente ci svegliano i sussulti dell’autobus che percorre una strada innaturalmente dritta in pieno deserto. Cespugli secchi a perdita d’occhio invadono enormi appezzamenti aridi perfettamente recintati, al posto degli alberi si innalzano mostruosi tralicci metallici che spingono energia verso il sud del paese e il profilo lontano di alcune trivelle a caccia di petrolio.

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Raggiungiamo Junin de los Andes nel primo pomeriggio, dopo quasi ventiquattro ore di autobus con sedili reclinabili ed aria condizionata sparata a manetta. Ancora non siamo abituati a tanto lusso, ma agli argentini piace viaggiare comodi. Il paese sembra un villaggio da far west. Quattro strade perfettamente parallele si incrociano come le righe di una tovaglia. Una piazza squadrata segna il centro di questo mondo punteggiato di case piccole e basse, in legno colorato e col tetto di lamiera. Ognuna col suo giardino pieno di fiori o erbacce a seconda delle attitudini del proprietario.

Il nostro ostello sembra una baita di montagna in pieno agosto. Raccogliamo informazioni dagli altri coinquilini circa il da farsi nei dintorni. Il primo che ci capita a tiro e’ un inquietante pittore appassionato di teschi che ha deciso di spostarsi in campagna alla ricerca di nuovi soggetti per i suoi lavori. Ci mostra una macabra serie di disegni pieni di simboli e morte. Dico a Fede che sarebbe meglio cambiare camera. Poi incontriamo Ferran, il catalano che ha fatto kayak alle Isole Svalbard. Con ramponi e piccozza si sta preparando alla scalata del vulcano Lanin, troppo per gente senza allenamento come noi, ma ci riempie di informazioni utili.

La nostra avventura di trekking comincia sulle sponde del lago Paimun. Il camping Piedra Mala si stende sulle rive di una bellissima spiaggia nera, all’ombra dei tremila settecento metri del Lanin, un cono perfetto incappucciato di neve. Srotoliamo la nostra tenda-casa e cerco di instradare mio marito ai misteri del camping. Mi adopero per instaurare un regime di ordine e pulizia che lui puntualmente si diverte ad infrangere, entrando in tenda coi piedi sporchi di terra o i vestiti pieni di foglie. Con costanza e indolenza cerca a mia insaputa di trasportare tutta la sabbia della spiaggia da fuori a dentro, qualunque cosa pur di farmi imbestialire.

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La scalata fino alla base del vulcano la iniziamo puntualmente tardi. Senza orologio e senza sveglia dormiamo troppo la mattina, dopo una notte scomoda sul fondo duro della tenda e un tacchino canterino piazzato su un ramo proprio sopra le nostre teste. Camminiamo fino a consumare le suole delle scarpe, però con grande orgoglio di Fede, competitivo per natura, superiamo a uno a uno tutti gli escursionisti mattinieri, quelli partiti prima di noi. Ci classifichiamo terzi alla meta, nonostante la resistenza dei molti che non si arrendono ad esser sorpassati.

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Picnicchiamo vista lago e beviamo l’acqua del ghiacciaio, prima di rientrare alla base con le gambe a pezzi, che quasi facciamo fatica ad arrivare al camping. Ma come primo allenamento non c’è male, soprattutto perché a cena divoriamo un pollo intero alla brace… la nostra odissea andina inizia così.

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Dall’alba al tramonto

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Giorno 335.

Il ragazzo spagnolo, che e’ stato l’unico a riuscire a tenere il passo indemoniato di mia moglie, ad un certo punto mi chiede sconsolato : “Ma vogliamo proprio arrivare per primi?”. Perche’ ci sono due modi per ammirare la magnificente alba sul più famoso vulcano d’Indonesia, il Bromo-Tengger: se hai più soldi che tempo, sali in jeep, viceversa ti godi una fantastica camminata di un’ora e mezza in salita, al buio ed al freddo, e lasci che sia la fatica a scaldarti le ossa…

Lungo il polveroso e accidentato sentiero che si inerpica sul fianco della montagna li seminiamo proprio tutti. Di tanto in tanto, lanciamo appena una occhiata giù in basso, al panorama di luci lontane che individuano il paese, come un piccolo presepe addormentato. Sembrano un riflesso in terra di questa immensa via lattea che riluce di un chiarore argentato. Tutto il resto sfuma nel buio, la boscaglia, il cratere, il deserto…ma ora non c’è tempo per pensarci, nemmeno per riprendere fiato, perché Giulia stanotte vuole vincere la maglia a pois.

Staccare il gruppetto di francesi di mezza eta’ e’ stato facile, non ci hanno raggiunti nemmeno quando ci siamo fermati a prendere il caffè da un’improbabile signora infagottata spuntata all’improvviso nel buio della salita. Ma con le due cicliste belghe, non me lo sarei davvero immaginato. L’ultimo a cadere e’ stato l’amico dello spagnolo, rapito dal buio quando la via ha smesso di essere sentiero per diventate percorso per capre. Giulia ci ha messo tutta l’energia di cui poteva disporre una che si e’ alzata alle tre del mattino. Dice che vuole essere in cima per tempo, non vuole sprecare la levataccia. Io sono più serafico, un minuto in meno di alba non ha mai ucciso nessuno, e poi ho sempre preferito i tramonti: la luce e’ più calda, me li posso godere con una birretta e altro, e soprattutto non ci arrivo stremato dopo essermi alzato ad un orario disumano. Se proprio uno vuole fare l’alba, mi dico, meglio non andare a dormire, ma tirar tardi nel paesino di montagna di Cemoro Lawang non e’ un’impresa facile. Comunque ormai ci siamo, e mi adeguo al passo marziale della fanatica che mi sono scelto come moglie.

In cima ci accolgono i furbastri che hanno barato, e hanno affrontato la tappa in jeep. Niente gran premio della montagna per loro, anzi, li guardiamo con aria sprezzante, consci che la fatica renderà la nostra alba più meritevole della loro… Gia’ che ci sono mi scelgo il punto di vista migliore per la classica foto ricordo dell’enorme caldera formatasi millemila anni fa grazie ad un’esplosione epica che ha disintegrato il vulcano esistente lasciando dietro di sé altri quattro crateri. Tra questi il celebre Bromo, che ogni tanto si sveglia e decide di ricordare a tutti la potenza della natura, eruttando ad intervalli regolari e ricoprendo i villaggi circostanti di cenere…

Sono risoluto a non mollare la mia postazione per nessun motivo: il sonno mi trasmette l’effetto carogna, con i gomiti larghi da buon centromediano non lascio avvicinare nessuno, soddisfatto e con un ghigno beffardo sul muso. Ma un attimo prima che il sole sorga, succede l’inverosimile. Giulia decide che da li’ non si vede bene, e inizia a scendere verso un’altra balconata che nella sua mente malata dovrebbe essere la più strategica. Sbracciandoci come due pazzi, comunichiamo a gesti a distanza, cercando ognuno di convincere l’altro a raggiungerlo, con risultati deludenti. Restiamo ognuno al proprio posto, così mi godo l’alba con i due spagnoli che nel frattempo sono arrivati in cima, il solito giapponese e la sua macchina fotografica tipo cannone con tanto di treppiede, ed un pazzo squilibrato che alle 5 di mattina, a 2500 metri e con un freddo cane, ha deciso di uscire in maglietta e pantaloncini. Dopo un po’, raggiungo Giulia più in basso, e devo ammettere che forse la sua vista era leggermente migliore, tipo 100 a 99… Chi vuole, o chi può, trovi le differenze…

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Ci godiamo lo spettacolo con picnic e colazione, facendoci beffe di quelli saliti in jeep, costretti a scappare via veloci, intrappolati nei classici tour superorganizzati con guida al seguito che incalza l’alba da dietro: giusto il tempo di una foto, senza magia, perché il programma non aspetta… Li vediamo sfrecciare sul fondo del cratere in una nuvola di sabbia nera. Parcheggiata la jeep e caricati su cavallini sfiniti già dal mattino sotto il peso di turisti pigri, mentre risalgono le pendici del Bromo fumante in un mare di lava. Così aspettiamo il pomeriggio quando tutti se ne sono andati, e ci godiamo in perfetta solitudine il tramonto, sulla luna. Giulia si diverte a scorrazzare su e giù per le dune scure, reclama foto in ogni dove, sembra una bambina immersa in un paesaggio surreale. Così, dopo il gran premio della montagna, arriva il momento della discesa libera…

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Miniere dall’inferno

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Giorno 333.

Pazienza! Continuo a ripetere a me stessa e a Fede come un mantra, mentre all’una del mattino aspettiamo che spiova al riparo di un pergolato. Il chiarore di un lampione illumina una squallida periferia sazia e addormentata, dopo gli eccessi di cibo di una lunga notte di ramadan. Una volta avrei detto “disastroooo”, con tante oooo al fondo, poi qualcuno ha cercato di insegnarmi la rassegnazione verso gli eventi che non posso controllare, cioè la maggior parte. Diciamo che ci sto ancora lavorando, però ci provo. Fede lui invece sta attraversando uno dei suoi momenti di pessimismo e fastidio, in cui mi ricorda troppo suo padre, ma so già che gli passerà presto.

Sicuramente alzarsi a mezzanotte con la prospettiva di scalare un vulcano in piena notte, sotto una pioggia torrenziale, rientra tra le dieci cose indimenticabili di un viaggio, ma in ogni caso avrei preferito una serata piena di stelle. Antonio, autista e organizzatore di scalate fai da te, che in inglese sa dire solo “no problem”, continua a insistere che una volta sulla cima non pioverà. Nel frattempo, per passare sopra la coltre di nuvole, dobbiamo affrontare due ore di motocicletta sotto un’acquazzone tropicale, lungo strade dissestate e disseminate di curve, percorse a velocità e con sicurezza tutte indonesiane, mentre il freddo e il sonno lentamente si insinuano fra i vestiti. Ogni tanto una nube di torpore mi spinge a scivolare dal sellino. Quando sente che allento la presa, Antonio mi rimprovera. Insiste affinché mi stringa forte a lui. Sicuramente teme per la mia incolumità, ma non posso fare a meno di pensare che non gli dispiaccia affatto essere abbracciato da turistone assonnate e infreddolite. In ogni caso potrebbe essere mio padre e poi sono troppo stanca per questo tipo di pudore. Gli obbedisco senza resistenze.

Nel cuore della notte veniamo scodellati in un parcheggio che sembra più un campo di pietre. Il sentiero comincia qui da qualche parte: sono tre chilometri fatali, di salita pura, che conducono sulla cima del vulcano Ijen, fino alle miniere di zolfo. Poco lontano un chiosco illuminato accoglie gli scalatori notturni prima dell’ascesa finale. Gli infreddoliti vengono alleggeriti con tazze di te o di caffè bollente a prezzi esorbitanti. Arrivando a quest’ora almeno non si paga il biglietto, così ci lasciamo alleggerire e riscaldare anche noi volentieri. Siamo tra gli ultimi a partire e non abbiamo molto tempo se vogliamo assistere alle spettacolo di luci blu. In ogni caso rifiutiamo ogni sorta di guida o accompagnatore improvvisato, con o senza lanterna, e in un eccesso di ottimismo ci avviamo verso la scalata a passo marziale.

La breve marcia si apre tutta in salita, fin dal principio. La torcia di Fede si fulmina a pochi metri dal parcheggio. Forse era il caso di cambiare le batterie, ma ormai e’ tardi per recriminare. Davanti a noi Audeline apre la fila con passo allenato, sembra un’istruttrice di spinning. Noi al contrario siamo stanchi e fuori forma, però tenaci. Abbiamo speso troppi giorni a scorrazzare col culo comodamente appoggiato al motorino e adesso siamo pronti a saldare il conto. Un dislivello sovrumano semina caduti lungo il tragitto tra gli scalatori che stanotte hanno trovato un’inattesa Caporetto. Li superiamo senza il fiato per salutarli mentre se ne stanno lì, seduti nel buio, sconfitti dalla stanchezza.

Il sentiero accidentato si inerpica tra le nuvole in un paesaggio spettrale. Arranchiamo nella nebbia tra pietre scivolose e rocce umide. Ci perdiamo almeno una volta, seguendo un vicolo cieco che conduce alle toilettes dei minatori. Arriviamo in cima sudati marci, il freddo cane patito in motorino e’ solo un vago ricordo, ma la fatica non è stata vana visto che siamo ancora in tempo per scendere al cratere. Forse aveva davvero ragione Antonio, si intravede qualche stella brillare fra le nuvole di pioggia, ma laggiù, nel buio dei vapori, l’oscurità e’ totale. Prendo per mano il minatore che si offre di accompagnarci nel cuore della cava e la stringo così forte che lui si mette quasi a ridere. La discesa e’ sdrucciolevole e la visibilità nulla per via delle esalazioni. Lo zolfo brucia nella gola e quando il vento soffia nella nostra direzione l’aria diventa irrespirabile. Ogni tanto mi accovaccio su una roccia tra gli spasmi della tosse. A pochi centimetri da me potrebbero esserci altre pietre come questa, oppure un crepaccio di cento metri fino al fondo del cratere. A volte e’ meglio non sapere…

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Sul fondo i fuochi blu splendono in un alone azzurrognolo. Dal buio sbucano spettri della nebbia. Uomini magri e polverosi che sembrano usciti da un girone dantesco. I minatori dello zolfo non dormono mai, risalgono la cima col loro carico di pietre giallo fluorescente, da dieci centesimi al chilo. La sigaretta sempre accesa, incuranti dei turisti e dei vapori, si spezzano la schiena con ottanta chili di zolfo in salita. Fede non riesce nemmeno a sollevare uno dei pesanti bilancieri che attente il suo traino umano fino al parcheggio. Tra un giro e l’altro, cercano di arrotondare dando la mano a turiste impaurite dal buio come me che vogliono visitare le miniere, oppure allestendo banchetti improvvisati dove lo zolfo diventa souvenir tra infantili formine tartaruga o girasole. Le compriamo, tutti le comprano dopo aver assistito ad una fatica simile.

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Emergiamo dall’inferno appena prima dell’alba. Aspettiamo che il sole sorga in una fenditura tra le rocce per ripararci dal vento. Il sonno si sta impossessando di nuovo di me e vorrei solo stendermi e usare questa pietra lavica come cuscino improvvisato. Il fondo del cratere e’ ancora avvolto dalle nuvole, mentre il cielo passa dal nero al blu. Quando il sole sorge completamente ad est un mare di latte si illumina ai nostri piedi con un riverbero quasi abbagliante. Le nostre ombre cadono a picco sul vapore che lentamente sale e si dissolve, avvolte da una suggestiva aureola arcobaleno. Santità? Illuminazione? Niente di tutto ciò, anche se Fede e’ già sulla buona strada coi suoi nuovi poteri da rabdomante. Ci viene in mente Terzani che in uno dei suoi ultimi libri descrive questo strano fenomeno e, mentre vi assistiamo ipnotizzati, non possiamo fare a meno di chiederci se gli uomini che continuano a lavorare sotto quella nuvola, anche in questo momento per noi magico, si siano mai rassegnati.

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Belli freschi

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Giorno 318.

Anche ai tropici esistono posti freddi. Appena scesi dal bus, al solito stracolmo, nella cittadina di Bajawa, sulle montagne di Flores, con gli ormai inseparabili Sam e Seb, capiamo subito che ci aspettano i giorni della merla, in cui non si disdegnerebbero camino, caldarroste, plaid e riscaldamento acceso. Anche l’hotel che scegliamo, l’Edelweiss, ha un nome più adatto alle nevi della Val Gardena che ai palmeti dell’Indonesia. Ha tutti i difetti degli hotel economici, cioè stanze piccole, letti in proporzione, bagni maleodoranti, scarsità di coperte, senza tuttavia averne il pregio principale, in questo caso il prezzo, che non e’ basso come dovrebbe. Flores e’ un’isola cara, perché tutto deve essere importato da Java o da Bali (o almeno così ci viene venduta la faccenda..), le strutture scarseggiano ed i turisti, pochi, che ci arrivano sono quasi tutti tedeschi o francesi di mezza eta’ abbondante che si muovono con macchina e guida privata, fregandosene dei prezzi ed ammazzando inconsapevolmente i poveri backpackers come noi, che invece pesano ogni Rupiah come se valesse oro. Comunque, ci stringiamo un po’ di più nel nostro lettino da bambini e passiamo la notte senza ibernarci, mentre al mattino una bella doccia fredda come l’acqua del Cervino ci da’ la carica per affrontare la giornata, manco fosse una tazza di the Lipton.

Per fortuna i dintorni di Bajawa sono belli, e con un po’ di sole la temperatura e’ gradevole. Siamo circondati da un paesaggio incantevole, con vulcani, per lo più spenti, tutto intorno. E poi sorgenti calde, fiumi, vegetazione rigogliosa e villaggetti sperduti. Passiamo una giornata di relax, vagabondi al mercato, mendicanti di fronte ad un bancomat che non ne vuole sapere delle nostre carte ed infine affamati davanti ad una bistecca di maiale, la prima dopo secoli. In Indonesia e’ tempo di Ramadan, ma a Flores non abbiamo problemi di ristorazione, perché l’isola e’ a stragrande maggioranza cristiana. Per cui via di maiale, anche se non si tratta di prosciutto crudo, quello bisognerebbe importarlo da Parma ma non so i costi.

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Il giorno dopo prendiamo il motorino ed iniziamo a girare per villaggi, non ci capiamo una mazza perché nonostante con il Bahasa Indonesia inizi a cavarmela, qui parlano tutti in dialetto, di cui non conosco una singola parola. Pero’ i paesini sono molto belli, ci esprimiamo a gesti e frasi storpie con i vecchi, giochiamo con i bambini, beviamo caffè con le donne.

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Il tempo volge al peggio, arrivano le nuvole, pioviggina, così bagnati per bagnati ci tuffiamo in un fiume particolare, in cui convergono le acque di due torrenti, uno freddo ed uno caldo, tipo 60 gradi. La sensazione caldo/freddo alternati a sorpresa e’ piacevolissima, tanto che stiamo a mollo più di un’ora, circondati dai bambini del villaggio vicino, che si godono, nudi, un po’ di acqua termale, for free…

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Un tizio che parla inglese ci consiglia di andare a vedere le sorgenti sulfuree, così accompagnati dai soliti bambini, questa volta Messi e Rooney, e dalla loro madre, camminiamo tra pozze ribollenti ed acque caldissime. Come sempre, non resisto alla tentazione di finire a mollo, così mi ritrovo con una scarpa ed i pantaloni color giallo zolfo, zimbello dei bambini che affrontano il sentiero scalzi, o al massimo in infradito. Comunque, tutto molto bello, come direbbe Bruno Pizzul…

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Non ci resta che andare a vedere il tramonto, anche se il sole e’ sparito dietro la nuvole da un po’…in moto mi porto dietro un pezzo di ghiaccio, salvo poi accorgermi dopo qualche chilometro che la figura congelata alle mie spalle ha le fattezze di mia moglie, ormai coperta di pelli che sembra Ambrogio Fogar in Antardide. Arrivati in cima al vulcano, la scongelo e corriamo a perdifiato tra l’erba alta fino alla vita per arrivare sull’orlo del burrone un attimo prima che il sole si spenga ed ammirare un paesaggio tipo Lost, con vulcani e scarpate verdi a picco sul mare. Peccato che sia quasi buio, e le foto non rendano giustizia. Ma i nostri occhi, loro si’, sanno cosa hanno visto….

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