Ancora tu…(ma non dovevamo vederci più?)

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Giorno 682.

Di nuovo India, sbarchiamo e ripartiamo. Dopo pochi giorni ci lasciamo alle spalle una Calcutta che non è nemmeno tutto quello schifo che il nome suggerisce. Grazie a David, un eccentrico canadese in bicicletta che soggiorna in città, ne esploriamo angoli nascosti e poco visitati come il mercato dei fiori, il quartiere degli artigiani di Kumartuli, e soprattutto il palazzo di marmo splendidamente decadente di una delle famiglie che furono potenti ai tempi degli inglesi ed ora cadute in disgrazia, ma che sfoggia dentro casa vasi Ming, dipinti di Rubens e Murillo ed un piccolo zoo privato ricco di magnifici uccelli tropicali. Il problema? Entrare, possibile in due modi: con un permesso ufficiale prenotato chissà dove, oppure alla maniera indiana, ovvero lasciando una mancia piuttosto cospicua al militare di guardia e ad un branco di personaggi che all’interno si propongono come guide improvvisate ed incompetenti. La famiglia Malik vive ancora qui, in un’ala dell’edificio, che purtroppo non si può visitare. Tutt’intorno, l’India di oggi è quella di sempre, con il traffico impazzito ed i mestieri senza tempo, gente che dorme dappertutto, gli esibizionisti, i barbieri a cielo aperto, i poveracci che si disfano per strada e l’alta borghesia che va a cena in ristoranti costosi e si compra BMW. Con i rompicoglioni più insistenti e gli uomini comuni dal sorriso più grande del mondo. 

            
Ma Calcutta per tutti, in Occidente, vuol dire soprattutto Madre Teresa. La casa di questa suorina albanese, icona del ventesimo secolo, e’ meta di pellegrinaggio delle genti più disparate, dai cattolici coreani ai curiosi qualunque come noi, che credenti non siamo, ma fa un certo effetto vedere la stanzetta minuscola e spoglia in cui questa signora, che si rapportava ai più potenti ed ai più disperati della terra, ha vissuto e lavorato per più di cinquant’anni. Giulia arriva a commuoversi e per un momento temo che mi chiederà di lasciare tutto e trasferirsi in pianta stabile tra le Missionarie della Carità.

    

gIl centro originario si trova poco lontano, di fianco al Kalighat, il tempio forse più importante della città, dedicato alla sanguinaria dea Kali. Qui si mormora che un tempo, in momenti di particolare difficoltà venissero eseguiti sacrifici umani per placare la sete di sangue della più terribile personalità del Pantheon Indù, consentendole in questo modo di trovare la forza necessaria per combattere i demoni e liberare il mondo dal male. Oggi si sgozzano più prosaicamente capretti, ed il rosso del sangue e’ sostituito da quello delle polveri rituali che ricopre persino i cani del quartiere e qualche vecchio mendicante, dando ai capelli una strana colorazione rosa acceso che fa tanto punk londinese anni 80. Entriamo nel santuario schivando le solite richieste di denaro da parte dei bramini, e ci mischiamo alla folla di credenti nella fila che conduce al sancta sanctorum in cui si può ricevere il Darshan, ovvero il contatto visivo con la divinità, che equivale ad una benedizione, o forse in questo caso sarebbe meglio dire una protezione, date le abitudini non proprio pacifiche della signora in questione che con il volto nero, i tre occhi spiritati, la linguaccia e soprattutto la ghirlanda di teschi, incute un certo timore.

    

Passiamo i tardi pomeriggi nello splendore neoclassico dei giardini del Victoria Memorial, il magnifico mauseleo dedicato alla regina Vittoria, che troneggia pingue, immortalata per sempre nel bronzo. È solo un’altra delle innumerevoli contraddizioni indiane, uno dei suoi monumenti più belli, costruito per una defunta sovrana straniera. Ma l’immagine più caratteristica della città, quella che più di tutte resta impressa nella memoria, e’ l’uomo-cavallo, il risciò a trazione umana, relitto dell’India del passato, ancora spaventosamente attuale nella metropoli del Bengala. E’ forse l’emblema che più di tutti incarna l’India moderna, un uomo scalzo, spesso di una certa età, che traina una carrozzeria con a bordo una signora corpulenta ricoperta d’oro e seta ed il figlio grasso, simbolo di un paese che, in parte, ha trovato il benessere e si ingozza di patatine, mentre il resto continua a morire di fame. E allora alzati bambino, inizia a camminare, che un po’ di movimento farebbe bene, ed un po’ meno disparità sociale, anche.  

   

Una risposta »

  1. Seems like a wrong place to visit but for Mother Teresa’s convent which is the hallmark of Kolkata (new name for Calcutta)…..where next?

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