Archivio mensile:marzo 2013

Il tartarugo bianco

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Giorno 207.

Apo Island e’ poco più di uno scoglio a sud di Cebu. Il santuario marino e’ stato distrutto lo scorso anno durante una tempesta tropicale, ma l’isola rimane una meta affascinante per le tartarughe giganti che popolano i fondali. Scartata l’ipotesi resort, perché c’è sempre un resort esclusivo nei posti più isolati, troviamo ospitalità a casa di Ronors e della sua famiglia. Scopriamo con sgomento che non c’e acqua corrente sull’isola, eccezion fatta per alcuni pozzi fangosi che donano secchi di una brodaglia grigia e salmastra, che non sembra buona neppure per il bucato, figuriamoci per una doccia. Per il resto tutto viene portato qui dalla terraferma, l’acqua da bere e quella piovana depurata per cucinare. L’elettricità si concede tre ore al giorno dalle sei alle nove di sera. Stop.

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Chiediamo informazioni su dove andare per vedere le tartarughe e, con sorpresa, scopriamo che si trovano abitualmente proprio di fronte alla trafficata spiaggia del paese: tra barche ormeggiate e filippini chiassosi che si rotolano nell’acqua dentro giubbotti salvagenti. Mi diverte il fatto che pur non sapendo nuotare non vogliano rinunciare all’esperienza. E così sovente si assiste alla scena di turisti catarifrangenti imbozzolati come salami, che vengono trascinati a braccia in un metro e mezzo d’acqua da amici nuotatori più esperti. E spesso la gita finisce in tragedia perché temerari, ma del tutto estranei a quello che stanno per fare, cadono dalla barca, inciampano sugli scogli, bevono acqua salata a garganella e poi si spaventano, oppure finiscono la giornata in lacrime con i piedi, o peggio il sedere, trafitti dagli aculei di qualche riccio di mare appostato proprio li’, in agguato alle gigantesche chiappe puntaspilli.

Impazienti dell’incontro ci buttiamo in mare, anche se è già quasi il crepuscolo. La marea si ritira in modo impressionante scoprendo per alcune decine di metri uno sgradevole tavolato di roccia e alghe dove i ricci spuntano a centinaia. Mentre attraverso il tappeto di melma verde, tentando di raggiungere almeno i trenta centimetri di profondità necessari per nuotare, Fede non trova niente di meglio da fare che lanciarmi stronzi di mare addosso, che oltre a farmi profondamente schifo, molli e viscidi come sono, rischiano pure di farmi cadere, mentre come una contorsionista tento di scansarli. Ma lui è così, e’ nato spiritoso…

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Quando avvisto la prima tartaruga a pochi metri da me, per poco non mi metto a urlare di gioia. Nuotiamo con loro per oltre mezz’ora. Non sembrano per nulla spaventate dalla nostra presenza, intente come sono a brucare sul fondo alghe verdi come lattuga. In poco più di un metro d’acqua dalla riva ne vediamo almeno otto. Sono emozionata come una bambina, e continuo a muovermi da una all’altra per non perdermi nulla di quello che fanno. Poi decido di violare la legge e di accarezzarne una sul dorso maculato di rosso e giallo: la sento liscia e coriacea. Quando ci prova Fede, lei si gira seccata e tenta di morderlo. Ben gli sta, lui e i suoi stronzi di mare.

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E’ l’imbrunire ormai e in acqua inizia a far freschetto. Mentre nuoto verso riva avvisto in lontananza una grossa specie, striata bianca e marrone, che nuota in superficie. Sgrano gli occhi nella penombra e cerco Fede, affannata, per mostrargli la mia scoperta, ma non lo trovo. Quando tiro fuori la testa dall’acqua per vedere dove si è cacciato, scopro che il bianco tartarugo altri non erano che lui e i suoi bermuda della Billabong.

L’isola delle streghe

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Giorno 204.

Basta poco per accorgersi, non senza un briciolo di soddisfazione, di quanto sia inutile portare al polso un orologio in questa parte del mondo. Quando due mesi fa si e’ rotto il mio, regalo di due care amiche, mi sono sentita perduta. Ma ora sto entrando in una nuova dimensione, in cui il tempo non ha lancette, ma soprattutto non ha nessuna fretta. Seguiamo il ritmo della giornata, la luce del sole ed il brontolio dello stomaco, che come sempre domina ogni nostro appetito. Viviamo nel presente, perché lo scorrere del tempo va innanzitutto goduto con serenità…. possibilmente cercando di non perdere l’ultima barca per Siquijor.

La corsa folle che ci spinge fino al porto di Dumaguete ci vede vincitori. Riusciamo a raggiungere l’isola prima dell’inizio della fatale Settimana Santa filippina. Pare che la Pasqua da queste parti si viva con passione viscerale, sull’onda di un fervore religioso collettivo, che come un’infezione si diffonde da uomo a uomo, spingendo un popolo mite e devoto al limite della sanità mentale. In alcune località si organizzano processioni scortate da cori di beghine, che inseguono statue di Gesù, Giuseppe o Maria in dimensioni naturali, ricoperte di fiori che vengono rimorchiate tra la folla a dorso di pick-up. Oppure cortei estatici di uomini seminudi e scalzi che si frustano la schiena a sangue per purificarsi dai peccati, mentre in altri casi viene simulata una vera e propria via crucis, con spettacolare crocifissione finale inclusa. Nella città di San Fernando, per esempio, ogni anno viene selezionato un fortunato vincitore, tra centinaia di volontari in lista d’attesa, per interpretare il ruolo principale della passione di Cristo. Il prescelto viene fustigato, incoronato di spine ed infine legato ed inchiodato mani e piedi ad una croce. E mentre il suo sangue scorre a fiumi, lui, invidiato da amici e parenti, pare esserne il più felice. Inserisco alcune foto reperibili su internet per rendere la follia.

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Grazie al cielo Fede mi risparmia tutto questo, anche se ovunque si aggirano curiosi travestimenti pasquali. Ci rifugiamo sula tranquilla isola di Siquijor, meta scartata dal turismo filippino. Nella superstizione popolare infatti l’isola e’ popolata da streghe e stregoni e i locals, che preferiscono farsi crocifiggere a sangue, la evitano come la peste, perché più che il dolore temono il malocchio. Per nostra fortuna, o sfortuna a seconda dei punti di vista, noi non incontriamo nessuno di questi sciamani, ma in compenso trascorriamo le giornate su spiagge deserte e tra i flutti rinvigorenti delle cascate dell’isola.

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Kayakkiamo nel tramonto ed ogni giorno ci gustiamo una cartolina diversa. Ma la sera scopriamo con sommo disgusto quanto possano essere voraci i nik niks, altrimenti noti come sandflies o mosche della sabbia. Questi piccoli bastardi ti mordono senza che tu te ne accorga mentre ignaro di tutto ti crogioli al sole, lasciandoti in dono decine di puntini rossi e urticanti, pronti ad infettarsi non appena ti gratti. E considerando che il prurito e’ micidiale e dura alcuni giorni, ci ricopriamo entrambi di croste purulente. Tra tutti e due, ne possiamo contare un centinaio. Anche il paradiso ha il suo prezzo.

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Underground River

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Giorno 199.

Sabang e’ una località sottovalutata dalle guide turistiche, citata esclusivamente come base di partenza per le escursioni al famoso fiume sotterraneo, che dopo aver attraversato sette chilometri di grotte, sfocia li’ vicino. Noi ci sistemiamo al fondo della lunga spiaggia, lontano dai mega resort strapieni di turisti orientali, in un bungalow spartano piantato nel mezzo di un giardinetto salmastro. Ci troviamo di fronte al mare più trasparente e cristallino dell’isola, il classico verde acqua che invoglia. A riva la lunga processione di palme corona il perimetro di una bella spiaggia: palme che, di tanto in tanto, fanno dono di fresche noci di cocco, dolce nettare da bere, quando non ti cadono dritte sulla testa.

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Giaccio stravaccata sopra un elegante divanetto di vimini antracite, mentre sorseggio un espresso disgustoso da tre euro alla tazzina, all’ombra di un fresco telone bianco che ricorda la vela di una barca. Guardo una slitta passare, al posto delle renne c’è un bufalo che sbuffa nella sabbia. Intorno mille coreani si strafogato al buffet del resort più elegante di Sabang, mentre noi ci possiamo permettere soltanto un caffettino. Con la scusa occupiamo la poltrona dei ricconi per tre ore, scroccando l’unica connessione a internet del villaggio. Mi sento a disagio e mi guardo ansiosamente intorno come se dovessero scoprire da un momento all’altro che siamo abusivi e fuori luogo in questo mondo extra lusso popolato da camerieri in bianco e dove il bar spunta come un’isola in mezzo alla piscina.

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Iniziamo l’avventura al fiume di mattina presto, vestiti di elmetto e giubbotto catarifrangente, come due idioti. Inveiamo contro la bigliettaia che poteva anche segnarci per il più comodo tour delle dieci e mezza, anziché quello delle otto. Come sempre il tragitto si svolge al buio, il barcaiolo ci offre una sola torcia raccomandandosi di non fare rumore, guardare senza strillare, e perché mai poi? All’interno fa freddo, l’acqua illuminata dalle torce riflette un bel colore blu, ma mentre procediamo sul fiume fra stalattiti e stalagmiti, sopra le nostre teste si intravedono migliaia di pipistrelli, grandi, piccoli e persino una nursery da cui spuntano musetti assonnati disturbati dalla luce. Mi ripeto che in fondo sono solo topolini con le ali. Alcuni ci svolazzano intorno con un forte stridio, la maggior parte fortunatamente resta appesa a testa in giù, a riposo. Quando esco tiro un sospiro di sollievo… si lo so che sono animaletti innocenti ed utili, però meglio non esserci quando si sveglieranno tutti.

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La navigazione nella grotta dura circa trenta minuti fra stretti passaggi e grandi anse, dopodiché ritorniamo verso la spiaggia di Sabang dove ci attendono in coda dodici pullman stracarichi di signore e signorini orientali, mentre un’esibizione di baby majorette si affanna ad intrattenerli. Ora ringrazio la bigliettaia per averci spedito con il giro delle otto.

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Italians

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Giorno 195.

La scena è familiare e al tempo stesso sconcertante. Siamo in sette al tavolo di un ristorante, seduti nella luce di un pergolato, in una calda serata di inizio estate filippina. Siamo tutti italiani, tutti presi a raccontarci storie su città sacre indiane, risaie vietnamite e visti pachistani mentre decidiamo se ordinare pasta alle melanzane o pane nero fatto in casa: il classico guazzabuglio chiassoso e gesticolante di italica gente. E’ sconcertante perché, anche se l’atmosfera sembra quella della pizzata del sabato sera con gli amici, in realtà non ci conosciamo affatto. Ma con Claudio ed Anna, Marina e Loredana, e Alberto, finiamo per creare un’allegra combriccola di over trenta, senza figli, per lo più senza lavoro o quasi, incontratasi per caso sulla spiaggia di Port Barton. La serata insieme vola piacevolmente sulle note di una ritrovata spontanea comunicazione, almeno per quanto mi riguarda, perché nonostante gli evidenti miglioramenti conseguiti in sei mesi di viaggio, l’inglese resta per me una lingua ostile, che proprio non riesce a permeare gli strati più profondi del cervello. Scoccano le undici e mezza e come Cenerentola veniamo educatamente sollecitati ad abbandonare il ristorante, evidentemente ben oltre il consueto orario di chiusura. Il villaggio e’ già avvolto nel silenzio di un sonno profondo, mentre due italiani tiratardi strillano nel buio di un porticato. Siamo Fede ed io, distrattamente dimenticati dal proprietario della guesthouse che, andato a letto già da un pezzo, si e’ sprangato dietro il portone principale, lasciandoci allegramente chiusi fuori dalla camera.

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El Nido

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Giorno 191.

Festeggio i miei trentatré anni con otto ore di traversata sulla rotta che collega Coron a El Nido, la nostra prossima meta nell’arcipelago di Palawan. Galleggiamo a fatica su un barcone stracarico che non ha nulla da invidiare a quelle bagnarole che scaricano immigrati clandestini sulle coste di Lampedusa. Cerco di stendermi su una panca di legno per riposare un po’, usando un giubbotto salvagente umido e ammuffito come cuscino improvvisato, quand’ecco che sulle note di Happy Birthday mi compare sotto il naso una torta a sorpresa, con tanto di panna e decorazioni azzurro puffo. Stordita e commossa, spengo la mia candelina da qualche parte nel Mar Cinese Meridionale. Gli anni di Cristo.

Sbarchiamo a El Nido insieme ai nostri amici parigini Elsa ed Alex, veri artefici della mia festa a sorpresa, a cui ci accompagnamo già dalle risaie di Batad. Al gruppo si è aggiunto anche Fernando, un argentino di origini cuneesi che parla un ottimo italiano, e tutti insieme decidiamo di affittare una barca l’indomani per muoverci liberamente ed evitare di finire di nuovo incastrati nell’A-B-C dei tour organizzati. Il villaggio e’ molto più turistico di Coron, anche se il mare che bagna la costa non sembra dei più limpidi. Il fondale basso e sabbioso dona gli stessi connotati torbidi dell’alto adriatico, con l’aggiunta di una sgradevole sfumatura verde oliva. Speriamo che domani sia meglio.

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Ma la baia davvero non delude. Siamo nella mitica location che ha ispirato Alex Garland come sfondo del romanzo The Beach, anche se il film l’hanno poi girato e ambientato in Tailandia. Lo scenario e’ punteggiato da scogliere e isole carsiche torreggianti che ricordano la Baia di Halong. Piccole lagune celano alla vista spiagge bianchissime incastonate tra rocce taglienti che scendono a picco sul mare. Il nome El Nido e’ stato dato dagli spagnoli per gli stormi di rondini che nidificano in questo paradiso di pietra e acqua. Anche noi troviamo un capanno d’amore, ma ahimè la spiaggia e’ già venduta…

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Passiamo le serate con bagni di folla e pestate di piedi al grande festival del villaggio, tra spettacoli musicali e partite di basket, un affollato mercato notturno dove ci strafacciamo di pesce alla griglia e spiedoni di pollo, birra Red Horse in bottiglioni da un litro e mezzo e ogni sera si festeggia ancora il mio compleanno. Me la vedo veramente brutta solo quando una Elsa intonatissima ed entusiasta costringe tutti alla temuta serata Karaoke. Canta pure Fede, Hey Jude. Io mi rifiuto categoricamente, mi agito, mi sudano le mani e quando davvero tocca a me, vado in play back…

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