Archivio mensile:ottobre 2012

La caduta della giovin signora

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Giorno 56.

La giornata inizia male. Non riesco a svegliarmi e nonostante le 8 ore di sonno sono ancora stanca, mi stiracchio pigramente sotto il piumone. È l’ennesima levataccia, fuori e’ ancora buio e mi sento quasi come se dovessi andare a lavorare. Fede deve minacciarmi per farmi smuovere. Ma forse era meglio se per un giorno avessi piantato la grana e fatto sciopero.

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Il viaggio si rivela il più infernale trasbordo di carne da macello mai visto. Seduti in ultima fila, i reni ci rimbalzano nella cavità addominale come palline da ping pong, le vertebre sbattono tra loro a fisarmonica, la testa ciondola in ogni direzione senza possibilità di appoggio. Dopo un’ora mi ritrovo già a contare i minuti che passano, mancherà sempre troppo all’arrivo…

Ci fermiamo in un villaggio sperduto, sosta pipì. Gli uomini si incollano a qualche muro per espletare, l’autista va a mangiare, mentre io cerco un cantuccio dove potermi appartare. Mi viene indicata una latrina, la solita passerella di legno sopraelevata con buchi quadrati, dove gli escrementi precipitano direttamente nel lago nero sottostante. Uomini e donne sono separati, ma tra le varie postazioni non ci sono divisori, ognuno può controllare cosa produce il suo vicino. La latrina e’ deserta per fortuna, mi chiudo nella felpa col cappuccio, tirato giù come Eminen, così mi sembra di proteggermi meglio dai germi. Entro in apnea, sto attentissima a dove cammino, non voglio mettere un piede in fallo e finire nella merda fino al ginocchio, o magari anche oltre, chissà quanto può essere profonda la gola dell’eterno fetore. E questa sarà la mia rovina…

Mentre esco di corsa per tornare finalmente a respirare, continuo a guardare in basso e, complice il cappuccio abbassato sugli occhi, non vedo la trave della porta che si schianta contro la mia fronte, atterrandomi di schiena. Il mondo diventa nero stellato, mi rialzo di scatto e tenendomi la zucca corro fuori da Fede, frignando, per farmi consolare. Lui subito quasi quasi mi ignora, ma quando tolgo la mano si apre una cascata di sangue, che mi gocciola fino alle scarpe. Apriti cielo. Anziché soccorrermi, Fede diventa Bruno, inizia a sproloquiare su quanto si può essere imbecilli ad aprirsi la faccia in due nel bel mezzo del nulla. Mi dice che sono tutta squartata, che ho un buco in mezzo alla fronte, che devo essere cucita. Mi viene in mente mia madre quando si è aperta la testa sbattendo in una grondaia, le hanno dato diversi punti e ancora oggi ha una cicatrice a forma di sorriso nel bel mezzo della fronte. Continuo a ripetermi che la testa sanguina subito, ma non riesco a contenermi e inizio a piangere come una fontana, immaginandomi una ferita di una certa importanza. Supplico Fede di darmi almeno un fazzoletto, mentre, più spaventato di me, continua ad inveire. Per fortuna intervengono due ragazzi cinesi nostri compagni di viaggio che mi afferrano per un braccio e, in lacrime, mi accompagnano da una specie di bancarella farmacia, dove a mani nude il negoziante mi da una rappezzata alla meglio. Tutto il villaggio intorno a guardare la straniera frignona che viene medicata.

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Ripartiamo per le tre ore rimanenti che ci separano dalla città. La troia seduta davanti, nel suo piumino giallo canarino, non mi cede neanche il posto, così mi rinfilo come una sardina nel mio sedile di terza classe. Sgrido Fede e cerco di spiegargli che di solito i feriti vanno tranquillizzati, non terrorizzati a morte. In ogni caso dopo un viaggio tremendo, arriviamo in città. Posiamo gli zaini in albergo e ci facciamo portare da un taxi fino all’ospedale in cerca di un parere un pochino più professionale. La scena che si apre nel cortile dell’ospedale e’ la seguente: sacchi di cemento ammassati, mucchi di mattoni e ghiaia, travi sparse qua e la, cani che razzolano, mentre operai al lavoro stanno evidentemente costruendo il nuovo ospedale. In mezzo alla polvere, una lunga panca di legno con venti persone, anziani per lo più, che si stanno facendo una flebo. Non è il cortile dell’ospedale, ma un ospedale a cielo aperto… in realtà c’e tutto, dall’accettazione al dispensario. L’autista del taxi ci fa da cicerone, si mette in fila di qua e di la e in un attimo mi conduce in una stanzetta piena di gente, dove un medico sta ravanando il pisellino di un monaco bambino, più o meno davanti a tutti. Non so come ha fatto il nostro uomo, ma è subito il mio turno. Tutti vedono la benda che ho in testa e vogliono sapere cosa mi e’ successo. All’incirca gli mimiamo la scena. Risate. Senza darsi neanche una lavata alle mani il dottore mi apre la ferita. Tutti quelli intorno, dal bambino monaco al vecchio con la bronchite, si sporgono a guardare. Risate ancora. Me la cavo con un cerottone, un bel livido con mal di testa incorporato ed una ciocca di capelli tagliata, per eseguire la medicazione. E non posso bagnare la testa per diversi giorni, ma d’ora in avanti baderò meglio a non spaccarmi le corna sullo stipite di una latrina.

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Profondo Tibet

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Giorni 51- 55.

La prima tappa del nostro triangolo al confine col Tibet ci porta in un paesino da far west di nome Manigango, dove squadriglie di cani randagi razzolano per strada in pattuglia alla ricerca di avanzi, e sono decisamente più numerosi della popolazione locale. L’unica strada ed i mulinelli di polvere alzata dal vento, sarebbero un perfetto set per un film di Sergio Leone. Mancano solo Clint Eastwood e Lee Van Cliff con tratti centro asiatici…

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Passeggiamo fino al lago sacro nelle vicinanze in un paesaggio di rocce rosse, scolpite da preghiere. A 3700 metri sul livello del mare questo specchio d’acqua nasce dalla fusione di un ghiacciaio tanto vicino che puoi pensare di toccarlo. L’acqua e’ di un verde denso, sembra tempera.

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Il minivan corre al ritmo incalzante dell’ormai familiare poppetone tibetano. Il monaco davanti a noi, dal faccione cinese con lunghi baffi, puzza come uno yak e non è il solo… Qualcuno qui sopra ha mangiato male ieri sera e non fa che liberarsi, silenziosamente. Raggiungiamo il passo a 5050 metri in mezzo alla neve fresca della notte. Mi sento mancare il fiato e non so se per l’altitudine o la fifa. La strada e’ una mulattiera di terra e ghiaccio, a precipizio sul dirupo, senza guardrail, e l’autista sportivo supera a manetta tutto ciò che intralcia il suo cammino. Sotto di noi il tunnel in costruzione che eviterà in futuro tutto questo gran salire, ma non oggi.

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La cittadina di Dege e’ la sede di una delle più importanti Lamasserie Tibetane del mondo, uno dei principali centri di cultura buddista con il Potala di Lhasa ed il Monastero di Samye. La maggior parte dei testi sacri vengono impressi qui, e da qui, imballati come reliquie in viaggio, si muovono verso altri importanti centri. Il settanta percento del patrimonio culturale tibetano, prima ancora che buddista, e’ custodito tra queste mura, conservato su migliaia di tavole di legno, incise a mano, che decine di uomini si incaricano di riprodurre, calcandole a mano.

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A Dege non ci sono turisti, non ci sono guesthouse, non ci sono docce. Ci sistemiamo in un piccolo alberghetto in stile tibetano con i soffitti invasi da draghi arancioni che, ruggenti sopra di noi, ci guardano dormire. Dopo due giorni di viaggio decidiamo che è necessario darsi una lavata. La proprietaria della pensione ci indirizza allegramente alle docce pubbliche, dove in realtà c’è poco da ridere. L’igiene scarseggia in questo luogo, non hanno il phon, ma almeno l’acqua e’ calda e ti omaggiato di ciabattine in plastica da doccia con funghi incorporati. Visto che fuori nevica sono costretta a farmi scortare da Fede, a testa bagnata, dal primo parrucchiere matto del villaggio, per farmi dare un’asciugata…ed è il momento, il ragazzetto mi ispira fiducia e gli propongo una bella spuntata, tanto i capelli sono già morti per meta della loro lunghezza: provati dal gioco della tinta con cui in primavera si sono deliziate le ragazze, i poveretti hanno esalato l’ultimo respiro soffocati nella polvere del Sichuan. Lui, gongolante per aver sottomano la sua prima cliente straniera e colto da un moto d’orgoglio tipicamente cinese, si impegna come una bestia. Per quasi un’ora taglia e sorride, mi sembra quasi di sentir fischiare il Barbiere di Siviglia. Mi da una bella tosata, con piega annessa, e per la modica cifra di due euro, cerco di ignorare la spazzola lercia che usa per strigliarmi. Per consolarmi mi compro un bel cappello tibetano.

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La strada per Baiyu percorre una gola stretta, a tratti ombrosa. Sfioriamo i confini del Tibet, segnati da una specie di cancello in stile pagoda, presidiati dall’esercito, per noi off limits. Oltre la strada per Lhasa, così ci indica il vecchio accanto a noi, con un filo di nostalgia nella voce. I lavori in corso ci fermano diverse volte. Fede vorrebbe giocare con i figli dei nostri compagni di viaggio, ma i bambini sono troppo intimoriti dalla suo barbone per socializzare. La cittadina e’ deliziosa. Anche qui il monastero e’ incastonato a mezza costa, affacciato su una valle stretta, ma e’ in completo restauro, quindi impossibile da visitare. Così passiamo la giornata gironzolando tra le vie, fino ad un tempietto panoramico, dove facciamo amicizia con un gruppo di bambini che, entusiasti, ci mostrano tutti i loro giochi, ci cantano canzoni e non ci lasciano più andare via. Cercano di comunicare con noi a gesti, disegnando sul muro con un gesso e attraverso le poche parole di un inglese mal imparato a scuola. Sono stupiti della nostra età, che deve essere più o meno quella dei loro genitori, anche se probabilmente sembriamo più giovani, soprattutto sono increduli e contrariati del fatto che non abbiamo ancora figli… così gli mostro una foto di Lorenzino e l’imbroglio e’ fatto. Si sono tranquillizzati.

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Ganzi

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Giorno 50.

Il monastero di Ganzi sorge come un incantesimo sulla collina che domina il panorama della valle e delle vette imbiancate che la incoronano. Avvolto in un dedalo di vie e casupole di legno variopinte che costituiscono ciò che resta dell’originale insediamento tibetano. Ci inerpichiamo sulle ripide scalinate che conducono alla cima sbirciando qua e la gli interni dei cortili e delle abitazioni tradizionali. Fede arranca, vittima la sera prima della spietata cefalea con aurea. Non ci sembra vero, ma siamo i soli turisti qui, non ci sono biglietti di ingresso da pagare e, per ora, quest’angolo di mondo sembra esser stato risparmiato dai brutti casermoni in cemento grigio che stanno spuntando ovunque come funghi.

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Una bellissima donna ci saluta dalla finestra, indicandoci la direzione attraverso il labirinto di viuzze, un cagnetto dall’aspetto poco feroce ci rincorre al sicuro dietro il suo balcone, anziane signore snocciolano le collane di preghiera accucciate sull’uscio di casa, i bambini giocano a figurine sul ciglio della strada e le merde secche al sole sembrano focacce integrali… In cima il panorama e’ illuminante. I monaci hanno appena terminato il pranzo e corrono dappertutto uscendo dal gompa. Ciascuno torna ai propri affanni, alcuni di loro lavorano sodo: una squadra di bonzetti in canottiera arancione sta ristrutturando l’interno di una sala di preghiera. Fede, curioso, non riesce a trattenersi e si infila per sbirciare. Io lo seguo a ruota.
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In città sono arrivati i leoni, li vendono al mercato con criniere rosso fuoco. Sono i mastini tibetani, quelli veri, non mischiati. Di corporatura possente ma flessuosa allo stesso tempo, ricordano più il re della savana che un comune cane da pastore. Datecene uno per le mani, e siamo pronti a sbaragliare una muta di pittbull… altra categoria, portamento imparagonabile.

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Da qui in avanti non riusciremo più ad utilizzare i mezzi pubblici, e non perché non ci siano: le tratte che ci interessano sono servite da un solo autobus al giorno, con partenza rigorosa alle sei del mattino, ma di cui misteriosamente non riusciamo mai a comprare il biglietto. La scena assurda si ripete in modo fastidiosamente monotono. Bigliettaie stronze ci sbattono il finestrino in faccia rispondendoci a stento il solito “meio” e noi, tra l’incredulo ed il rassegnato, affittiamo due posti su minivan privati al doppio del prezzo. Ora vale la pena di chiarire che solo dopo diversi tentativi a vuoto abbiamo capito ciò che nessuna guida riporta e che le bigliettaie ostili non sprecano fiato a spiegarci. Se sei in Cina, almeno in questa parte della Cina, e devi viaggiare in autobus, devi prenotare il biglietto il giorno prima, ma puoi farlo solo se acquisti la tratta completa. Se vuoi scendere a metà tragitto invece, devi presentarti alla partenza ancora prima degli altri viaggiatori già muniti di ticket, aspettare che tutti loro salgano, e se avanza un posto libero occuparlo nella speranza che qualche furbetto non lo prenda prima di te. Questo il meccanismo, in teoria, ma noi non riusciamo mai a spuntarla nella corsa alla conquista del posto e siamo quotidianamente costretti a ripiegare trafelati su minivan scassoni. E qui si apre il sipario su una nuova tragicommedia: la ricerca di qualcuno che vada nella nostra stessa direzione, che non tenti di fregarci sul prezzo, ma che soprattutto non disponga degli ultimi due posti in terza fila dove si rimbalza sul sedile tra cunette e montagne russe. Tutto questo in tibetano, buttandoci in mezzo un po’ di cinese. A ciò va aggiunto che, un giorno e si’ ed un giorno no, ci spariamo dalle 5 alle 8 ore di viaggio: e’ come se a giorni alterni andassimo in autobus fino a Napoli, anche se le distanze sono in realtà molto inferiori, ma le condizioni delle strade sono così estreme che per fare venti chilometri ci vuole almeno un’ora di sobbalzi. Tutto contribuisce al mal di schiena. La notte sogno un massaggio di Lorenzo, ma il miraggio e’ ancora lontano.

In viaggio con Stallone

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Giorni 47-48-49.

Lasciare Chengdu ed i suoi agi da grande città non è stato facile, anche perché la sveglia alle 6 e’ sempre fastidiosa. Quando poi ci siamo ritroviamo entrambi a maledire qualche porcheria mangiata il giorno prima alle bancarelle, abbiamo capito che non sarebbe stata una giornata facile. La cagarella incombe, e l’unico modo per sopravvivere a otto o nove ore di bus e’ imbottirsi di imodium. Inoltre, l’autobus e’ affollato di gitanti del weekend, una masnada di ragazzini i quali, molto più previdenti noi, hanno già il biglietto in tasca. Ci toccano quindi due posti in ultima fila, quelli non reclinabili, i peggiori, quando si hanno sospensioni ed ammortizzatori a brandelli. Per fortuna, grazie alla loperamide, ce la caviamo con un po’ di mal di pancia, e non siamo costretti a far fermare l’autista tra le risate generali…solo una volta mi soffermo troppo in bagno dopo una sosta, ma me la cavo con qualche sghignazzata alle spalle…sono ragazzi…

Arrivati a Kangding, non riusciamo a trovare l’ostello che avevamo individuato. Nessun tassista lo conosce, e la popolazione del luogo si rivela del tutto inutile…anzi dannosa nel caso di due ragazzini, che con la scusa di parlare in po’ di inglese, ci trascinano da un capo all’altro della cittadina…piccolo particolare noi due siamo carichi di tutti i nostri averi sulle spalle, e farsi quattro o cinque chilometri in quelle condizioni ci distrugge la schiena, oltre all’umore. Ci salva una donna, che più o meno da’ degli imbecilli ai ragazzini, e ci accompagna a destinazione, di fianco a casa sua. Per fortuna l’ostello, di proprietà di un ragazzo americano, si rivela essere un luogo sublime, abbarbicato a mezza costa con una bella vista, camere confortevoli, bagni moderni e delle torte al cioccolato per colazione da far paura…sarebbe da restarci a lungo, ma la strada, anzi la Sichuan-Tibet Highway, mica cazzi, ci chiama…

A Kangding ci dedichiamo alla scalata di quattro ore di una montagna consigliataci dall’americano proprietario della guesthouse per la sua vista panoramica. Tanto per tenerci in allenamento e poi vuoi mica fermarti un giorno come consigliano tutti i manuali per combattere i sintomi di mal di montagna? Caldo e riposo la ricetta vincente, ma Giulia non la tiene ferma nessuno, non c’è terra che la regga, mi sembra quasi Manara.. Arranchiamo verso la cima, su sentieri che non conoscono la logica orizzontale, attraverso pinete e antichi cimiteri che ricordano i tumuli del Signore degli Anelli. Sudiamo come maiali, forse sbagliamo strada e per un po ci perdiamo a mezza costa, ma la vista delle montagne imbiancate e della vallata sottostante ci ripaga in abbondanza. In cima la prateria, una tenda nomade con i cavalli in un recinto ed un gruppo di cinesi in campeggio che chiassosamente stanno preparando il barbecue.

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Il giorno seguente si parte di nuovo. Ora, quando ti dicono che viaggerai sul ramo Nord della mitica Sichuan-Tibet Highway, ti aspetti chissà cosa. A noi tocca in sorte un autista modello Sylvester Stallone in “Over the top”, un supermacho cazzutissimo con tanto di occhiali da sole, che si presenta con un sorpasso in curva all’uscita dalla stazione dei bus. I primi chilometri scorrono via piacevoli tra una curva presa a velocità supersonica ed un altro sorpasso alla cieca, poi le cose peggiorano. Di colpo siamo in Iraq, la strada decide di polverizzarsi in una miriade di buche, sassi e cunette, in un saliscendi infinito tra nuvole di polvere e lavori in corso. Ad un certo punto Stallone, stanco perché una guida aggressiva richiede molte energie, decide di lasciare il posto al suo giovane padawan, che inizia il suo turno mostrando un approccio più dolce e rilassato. Purtroppo però la brutalità della Highway non perdona, e dopo pochi minuti ci troviamo impantanati in un guado improvvisato. Stallone allora riapre gli occhi, si gira verso i passeggeri, tira una boccata alla sigaretta, alza gli occhi al cielo e, inforcati nuovamente le sue lenti modello Ray Ban, allontana in malo modo il ragazzetto, riprendendo il controllo delle operazioni tra gli applausi della platea. In men che non si dica siamo fuori dai guai, a dimostrazione del teorema che certe strade non sono fatte per le mezze cartucce. Non mollerà più la guida, e prima di sera entreremo trionfalmente a Ganzi, 3400 metri sul livello del mare, in un anfiteatro di montagne, fiumi e praterie color ocra.

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Chengdu

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Giorno 46.

A Chengdu, oltre ai panda, ci dedichiamo alla visita del grande Buddha di Leshan, due ore e mezza di viaggio ad andare ed altrettante a tornare, per un’oretta circa di scalata. Faticoso, nella nebbia umida lungo il fiume, ancor di più quando si scende di quota e si sente tutto il peso della bassa pressione che schiaccia la città. Sorridente, alto settanta metri, come una sfinge di pietra che più che il naso ha smarrito i vestiti. La scultura era infatti lastricata di indumenti preziosi, probabilmente persi da qualche parte durante la Rivoluzione Culturale. Oggi l’immenso torace nudo è rivestito di muschio e felci, ma si tratta del più grande Buddha dell’universo, potevamo perdercelo?
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Non potevamo lasciare la città senza provare uno dei suoi piatti più famosi. L’ Hotpot e’ l’anestetizzante versione sichuanese della bourguignonne. Un brodo oleoso a base di peperoncino e di pepe del Sichuan, così forte da intorpidire la bocca e nello stesso tempo esaltare i sapori, in cui vengono immerse a cuocere verdure tagliate a tocchetti, fette di carne, uova di quaglia, ravioli dal dubbio ripieno, il tutto a scelta del cliente… e per Fede e’ la storia di un nuovo grande amore…

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Soprattutto a Chengdu conosciamo Andrea e Yushan, una coppia italo-cinese con la quale trascorriamo un paio di giorni e costruiamo uno di quei piccoli legami particolari che ogni tanto emergono durante un viaggio. Insegnante di italiano lui, disegnatrice di thangka lei. Nel poco tempo trascorso insieme, oltre ad esplorare mercatini alimentari e sale da the, abbiamo avuto il piacere di apprezzare la dolcezza di Yushan ed il carattere di Andrea: estremamente intelligente, coraggioso, curioso. Romano di 35 anni, nonostante sia affetto da un grave problema di salute non ha rinunciato ad inseguire i propri sogni, trasferendosi in Cina circa otto anni fa, trovando lavoro ed anche una bellissima fidanzata. Il suo coraggio nell’affrontare situazioni per noi normali ma per lui complicate ci ha lasciato qualcosa, e ci faceva piacere ricordarlo. In bocca al lupo ragazzi, per tutto.