Giorno 56.
La giornata inizia male. Non riesco a svegliarmi e nonostante le 8 ore di sonno sono ancora stanca, mi stiracchio pigramente sotto il piumone. È l’ennesima levataccia, fuori e’ ancora buio e mi sento quasi come se dovessi andare a lavorare. Fede deve minacciarmi per farmi smuovere. Ma forse era meglio se per un giorno avessi piantato la grana e fatto sciopero.
Il viaggio si rivela il più infernale trasbordo di carne da macello mai visto. Seduti in ultima fila, i reni ci rimbalzano nella cavità addominale come palline da ping pong, le vertebre sbattono tra loro a fisarmonica, la testa ciondola in ogni direzione senza possibilità di appoggio. Dopo un’ora mi ritrovo già a contare i minuti che passano, mancherà sempre troppo all’arrivo…
Ci fermiamo in un villaggio sperduto, sosta pipì. Gli uomini si incollano a qualche muro per espletare, l’autista va a mangiare, mentre io cerco un cantuccio dove potermi appartare. Mi viene indicata una latrina, la solita passerella di legno sopraelevata con buchi quadrati, dove gli escrementi precipitano direttamente nel lago nero sottostante. Uomini e donne sono separati, ma tra le varie postazioni non ci sono divisori, ognuno può controllare cosa produce il suo vicino. La latrina e’ deserta per fortuna, mi chiudo nella felpa col cappuccio, tirato giù come Eminen, così mi sembra di proteggermi meglio dai germi. Entro in apnea, sto attentissima a dove cammino, non voglio mettere un piede in fallo e finire nella merda fino al ginocchio, o magari anche oltre, chissà quanto può essere profonda la gola dell’eterno fetore. E questa sarà la mia rovina…
Mentre esco di corsa per tornare finalmente a respirare, continuo a guardare in basso e, complice il cappuccio abbassato sugli occhi, non vedo la trave della porta che si schianta contro la mia fronte, atterrandomi di schiena. Il mondo diventa nero stellato, mi rialzo di scatto e tenendomi la zucca corro fuori da Fede, frignando, per farmi consolare. Lui subito quasi quasi mi ignora, ma quando tolgo la mano si apre una cascata di sangue, che mi gocciola fino alle scarpe. Apriti cielo. Anziché soccorrermi, Fede diventa Bruno, inizia a sproloquiare su quanto si può essere imbecilli ad aprirsi la faccia in due nel bel mezzo del nulla. Mi dice che sono tutta squartata, che ho un buco in mezzo alla fronte, che devo essere cucita. Mi viene in mente mia madre quando si è aperta la testa sbattendo in una grondaia, le hanno dato diversi punti e ancora oggi ha una cicatrice a forma di sorriso nel bel mezzo della fronte. Continuo a ripetermi che la testa sanguina subito, ma non riesco a contenermi e inizio a piangere come una fontana, immaginandomi una ferita di una certa importanza. Supplico Fede di darmi almeno un fazzoletto, mentre, più spaventato di me, continua ad inveire. Per fortuna intervengono due ragazzi cinesi nostri compagni di viaggio che mi afferrano per un braccio e, in lacrime, mi accompagnano da una specie di bancarella farmacia, dove a mani nude il negoziante mi da una rappezzata alla meglio. Tutto il villaggio intorno a guardare la straniera frignona che viene medicata.
Ripartiamo per le tre ore rimanenti che ci separano dalla città. La troia seduta davanti, nel suo piumino giallo canarino, non mi cede neanche il posto, così mi rinfilo come una sardina nel mio sedile di terza classe. Sgrido Fede e cerco di spiegargli che di solito i feriti vanno tranquillizzati, non terrorizzati a morte. In ogni caso dopo un viaggio tremendo, arriviamo in città. Posiamo gli zaini in albergo e ci facciamo portare da un taxi fino all’ospedale in cerca di un parere un pochino più professionale. La scena che si apre nel cortile dell’ospedale e’ la seguente: sacchi di cemento ammassati, mucchi di mattoni e ghiaia, travi sparse qua e la, cani che razzolano, mentre operai al lavoro stanno evidentemente costruendo il nuovo ospedale. In mezzo alla polvere, una lunga panca di legno con venti persone, anziani per lo più, che si stanno facendo una flebo. Non è il cortile dell’ospedale, ma un ospedale a cielo aperto… in realtà c’e tutto, dall’accettazione al dispensario. L’autista del taxi ci fa da cicerone, si mette in fila di qua e di la e in un attimo mi conduce in una stanzetta piena di gente, dove un medico sta ravanando il pisellino di un monaco bambino, più o meno davanti a tutti. Non so come ha fatto il nostro uomo, ma è subito il mio turno. Tutti vedono la benda che ho in testa e vogliono sapere cosa mi e’ successo. All’incirca gli mimiamo la scena. Risate. Senza darsi neanche una lavata alle mani il dottore mi apre la ferita. Tutti quelli intorno, dal bambino monaco al vecchio con la bronchite, si sporgono a guardare. Risate ancora. Me la cavo con un cerottone, un bel livido con mal di testa incorporato ed una ciocca di capelli tagliata, per eseguire la medicazione. E non posso bagnare la testa per diversi giorni, ma d’ora in avanti baderò meglio a non spaccarmi le corna sullo stipite di una latrina.