Giorno 484.
I quaranta gradi della “Ola di calor” che colpiscono la città a cavallo delle feste, sciolgono cammelli e Re Magi nelle aiuole del centro. Poche le decorazioni natalizie, i presepi trasudano al sole e un babbo natale appeso al balcone si chiede dove siano sparite la neve e le renne. Ai mercatini natalizi gli ombrelli sostituiscono le lucine colorate, però almeno fanno ombra. Il Palazzo Rosado di Evita si incendia come brace, persino le madri dei desaparesidos non protestano in piazza, sono intrappolate a casa, vittime dei tagli di luce e d’acqua che colpiscono a turno i quartieri della città. Noi siamo salvi, dormiamo nel Microcentro, dove vivono le banche, e alle banche non si taglia mai la luce. Ma nei quartieri periferici c’è chi rimane senza servizi per oltre un mese. In città si diffondono focolai di protesta. Strade chiuse, immondizia che brucia sui marciapiedi, pentole che tuonano come tamburi dai balconi dei condomini più bollenti.
Il nostro eccellente padrone di casa e’ Fernando Lao Lao, nome d’arte, amico viaggiatore conosciuto per caso alle Filippine. Passiamo le feste con la sua famiglia, Norma e Carlos ci invitano a casa loro per la tradizionale cena fredda di Natale, niente lasagne e capretto al forno con queste temperature, ma tanti stuzzichini colorati, matambre e una specie di vitello tonnato. A mezzanotte mangiamo monete di cioccolato e una guerra di fuochi d’artificio incendia la città. Penso che forse abbiamo sbagliato festa e invece no, Fer ci spiega che da queste parti usa così: Natale e Capodanno, fuochi tutto l’anno. Sono un po’ napoletani questi argentini. La serata va avanti a suon di Sidra e Fernet e Coca Cola fino alle quattro del mattino. Per la fine dell’anno replichiamo, io mi cimento in un tiramisu’ improvvisato e Norma mi coinvolge nel tradizionale lancio dal balcone di qualcosa vecchio. Sono pronta a sollevare una lavatrice, ma la padrona di casa estrae un sacchetto dove ha rigorosamente conservavo tutti i tappi di bottiglie consumati nell’arco dell’anno appena trascorso, insieme alle agende e al calendario dell’ormai vecchio 2013. Stracciamo coriandoli bianchi sulla città e cade una pioggia di tappi di sughero dal dodicesimo piano.
Le giornate passano bollenti con noi rinchiusi in ostello dentro una stanza stretta e lunga, dai soffitti altissimi. Evitiamo la colazione dormendo fino all’una per sottrarci al monopolio del dulce del leche, che tutti qui adorano mentre a noi da la nausea, ma soprattutto non possiamo separarci dal ventilatore. Come vampiri aspettiamo le tenebre per sgusciare fuori casa, intanto Fernando smette di lavorare alle undici, e noi lo attendiamo con ansia per farci guidare fra i piaceri della carne alla brace, parrillada al carbon, e dei choripan lungo la Costanera. Nella sauna dei 33 gradi a mezzanotte, ci facciamo una cultura su tutte le gelaterie della città. L’unica cosa che ci costringe a camminare sotto il sole e’ il pellegrinaggio obbligato verso tutti i negozi sportivi della città. Dobbiamo comprare tutto per il camping, perché il vento e’ cambiato e ci stiamo preparando al trekking patagonico.
Buenos Aires e’ la città più italiana che abbia mai visto, fuori dall’Italia. Le strade sono perfettamente squadrate, come un accampamento romano, i palazzi in stile liberty, l’aria che si respira sa di Europa e nomi qua e là risuonano stranamente familiari: Palermo Viejo, Palazzo Barolo, Caffè Tortoni. In giro si mangiano lasagnas, milanesa alla napolitana, pissa con la mussarella. Poi tutti quelli che incontriamo hanno una passione sfegatata per Papa Francesco, vantano almeno un paio di nonni italiani e sfoggiano tanta, troppa voglia di parlare e lamentarsi su tutto: del governo, della crisi, dei tagli di luce. Una razza, una fazza insomma. Mi faccio tanti amici di cartapesta ed è facile sentirsi subito a casa.
L’ombelico della città e’ un obelisco psichedelico, finto egiziano, che troneggia sulla via principale come monumento a non so bene cosa. Qui si festeggiano gli eventi cittadini, tutti si danno appuntamento nella sua ombra e la sera si segue con lo sguardo il getto di luce rotante scagliato dalla cima, come una specie di supersound sudamericano. Dall’altro lato dell’Avenida 9 de Julio parla Evita dal profilo di un grattacielo, o forse sta cantando “Don’t cry for me Argentina”. Andiamo a salutarla anche al cimitero, la monumentale Recoleta, dove la regina peronista riposa tra angeli statuari e le tombe di un altro centinaio di celebrità: tutti eminenti dittatori, coraggiosi generali e meteore golpiste.
Al Teatro Colon danno “Il lago dei cigni”, ma hanno esaurito tutti i posti a sedere. Restano solo quelli in cima, in piccionaia, dove si spintona in piedi per due ore e quaranta minuti di balletto, lottando per uno sguardo in prima fila da cui sbirciare qualche piuma lontana giù in basso. Fede, che già tentennava prima di informarsi sulla presenza di aria condizionata, alla notizia ci ripensa del tutto. Mi dice che sono pazza e che posso anche andare da sola. Lo farei, ma mi manca l’abito lungo e mi sembra inutile comprarlo proprio ora che devo diventare una trekker professionista.
Un terzo di tutta la popolazione argentina vive nel cono urbano di Buenos Aires, e sommariamente così suddivisa: i ricchi hanno attici che si affacciano sul Puerto Madero, uno specchio d’acqua e grattacieli di vetro con il ponte a vela del Calatrava, ristoranti New Age e Freddo, la gelateria più buona della città. I giovani Cool abitano a Palermo, indecisi tra le due varianti Hollywood e Soho, un intrigante reticolo di casette basse pitturate a murales, bar all’aperto e botteghe di design.
I bohémienne preferiscono il quartiere vecchio di San Telmo, con la colorata Feira domenicale, paradiso delle cianfrusaglie, e le sciure che vanno al mercato coperto per fare la spesa. I poveracci campeggiano dappertutto. Sulle panchine o nei portoni delle banche. La sera frugano tra i rifiuti realizzando una specie di raccolta differenziata tardiva. Nel senso che gli argentini buttano via tutto insieme e loro per strada spacchettano tutto e separano i materiali riciclabili per rivenderli a pochi spiccioli.
La Boca e’ un arcobaleno geometrico rosso giallo e blu. I genovesi immigrati a fine ottocento dipingevano le case di lamiera con la vernice avanzata delle barche, per un complessivo effetto carruggio. Il quartiere oggi e’ tra i più turistici della città, ricco di locali e ristoranti che ipnotizzano lo spettatore a suon di spettacoli di tango e folclore, ma basta uscire dalle tre vie principali per ritrovarsi inaspettatamente a dover stare attenti al portafoglio.
Fede ridiventa bambino e per una volta mi chiede di scattargli una foto ricordo davanti alla mitica Bombonera, lo stadio gialloblù del Boca Juniors, quello di Maradona, Batistuta e Tevez. Un paio di scarpe da ginnastica penzolano da un filo della luce. Fernando ci spiega che stanno lì per segnalare che in questa zona si spaccia.
Il tango permea Buenos Aires in tutte le sue versioni. Da quella retro-chic della Confiteria Ideal, una tra le più antiche Milongas della città, oggi meta di ultrasessantenni nostalgici di Gardel, a quello improvvisato per strada, dove sudati ballerini avvinghiati cercano di incantare turisti e raccogliere qualche spicciolo. Ma dove va la gente normale? Norma ci dice che si ritrova la domenica pomeriggio alla Barranca di Belgrano, sotto un gazebo in stile liberty del parco cittadino, a pochi passi dal quartiere cinese. Passano le ore mentre guardo rapita piedi che strisciano su pavimenti di marmo, studiando ogni passo, ogni vibrazione. Fede e Fer picniccano disinteressati all’ombra di un’aiuola. Quando vengo finalmente notata e gentilmente invitata da un galantuomo in mocassini neri e capelli brizzolati, mi tocca pure rifiutare e rimpiangere di non essermi mai iscritta a quel corso di tango argentino che da sempre avrei voluto seguire.