Archivio mensile:aprile 2014

Jurassic Park

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Giorno 598.

“Reddy, guía muy aventurosa…”, continua a ripetere la nostra guida, tale Reddy per l’appunto. E’ un bravo ragazzo ma, purtroppo per lui, e per noi, ha un leggero ritardo mentale che lo fa sembrare un bambino di 5 anni, più che un uomo di trenta. Da Sucre siamo arrivati al parco di Torotoro per vedere uno scampolo di Bolivia un po’ meno turistico del circuito classico Salar-Potosi’-La Paz-Isla del Sol. Ed anche per scoprire uno dei migliori posti al mondo in cui osservare le impronte pietrificate di dinosauri in fuga da qualche cataclisma non ben definito. I percorsi intorno all’omonimo paesino sono facili, ma per dare sostegno alla depressa economia locale, l’amministrazione del parco ti costringe a prendere una guida del villaggio, poco importa se borderline. E così finiamo con Reddy.

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Io sono di pessimo umore, e’ da Sucre che mi porto dietro un fastidioso problema intestinale, pensando che sia la solita infezione dovuta alla scarsa igiene alimentare. All’inizio non ci do troppo peso, ma quando inizio a trovare sangue nelle feci, l’idea che non sia solamente un problema di poco conto inizia a dominare le mie giornate. In queste condizioni mentali, la marea di cavolate fanciullesche che escono a fiumi dalla bocca del nostro Reddy, me lo rendono del tutto insopportabile. Avrei voglia di starmene sdraiato tutto il giorno, ma siamo venuti fino qui sparandoci otto ore di autobus, e devo muovermi. Solo che ce la faccio a mala pena, dovendomi fermare per una pausa tecnica tra gli arbusti ogni due ore. E c’è quel maledetto sangue…Mi dico che potrebbero essere solo emorroidi, ma quando sei abituato a stare sempre bene, il minimo problema ti porta a pensare a qualcosa di brutto.

Passiamo un giorno intero a caccia di rettili, o meglio dei loro lasciti pietrificati, ed in effetti ne troviamo molti, sparsi su un tavolato di roccia piatta, scoperto dall’erosione. Le impronte risalgono a milioni di anni fa quando diverse tipologie di dinosauri, nel corso di una migrazione di massa verso ovest, attraversano questo terreno, allora fangoso, lasciando dietro di loro una scia di enormi zampettate. In quella stessa terra, oggi pietrificata, si riconoscono perfettamente le orme dei grandi erbivori, tonde ed enormi, e quelle dei più agili carnivori, con la tipica forma a tre dita munita di grosse unghie, come giganteschi gallinacci. Ci spingiamo fino ad alcune cascate e sul bordo di un canyon piuttosto impressionante. Giulia si sacrifica, standosene ad ascoltare la logorrea di Reddy per risparmiare me almeno da quel supplizio. Io mi aggiro spettrale e meditabondo, ormai certo di stare per morire.

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Il giorno dopo e’ la volta della caverna. Ci tocca ancora una volta l’irriducibile Reddy come accompagnatore. Questa volta la guida serve davvero, calarsi in una grotta a duecento metri di profondità alla cieca sarebbe un suicidio ed un paio di stranieri che ci hanno provato qualche anno fa, ci hanno lasciate le penne. Solo, non sappiamo se sia una buona idea inoltrarci verso il centro della terra con un tizio troppo “estroso” per sembrare affidabile. Quando scopriamo che i bambini del posto frequentano la zona da vent’anni e che Reddy stesso ci è stato mille volte, ci fidiamo e partiamo. In ogni caso, mi dico, visto che probabilmente dovrò morire presto, meglio in una grotta boliviana piuttosto che in un letto d’ospedale. Preparo mentalmente il mio testamento, spirituale e non… Ma questa volta Reddy si rivela utile, guidandoci nei tunnel, strisciando attraverso passaggi che se pesi più di ottanta chili ti sono preclusi, guadando torrenti sotterranei, calandoci da alcune pareti con corde improvvisate. Ci sorbiamo pure un concertino, quando il nostro amico ci fa spegnere le luci e nel buio totale della grotta ci delizia con alcune canzoni folcloristiche di cui lui stesso si rende interprete che rimbombano in ogni fessura. Giulia vive un momento di terrore, si stringe piccola piccola a me, sicura che la follia di Reddy stia per esplodere sotto forma di accoltellamento, ma ce la caviamo con un applauso e proseguiamo. Al fondo della caverna, un paio di pozze accolgono una quantità di pesci bianchi, completamente ciechi. Del resto, senza luce nell’oscurità più totale, non c’e’ bisogno di vedere. Riemergiamo dopo quasi tre ore, soddisfatti per l’avventura. Sono ancora vivo, ma so di avere i giorni contati…

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Argento

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Giorno 591.

“Sono l’antica Potosì
Il tesoro del mondo
e l’invidia dei re”

La ricchezza e la tragedia di Potosi nascono quasi per caso, agli arbori dell’epoca coloniale, con la scoperta accidentale di ricchi filoni d’argento celati nella profondità del Cerro Rico. L’arido picco che incombe minaccioso alle spalle delle città sfiora i cinquemila metri e grazie alle forme vagamente coniche ricorda più un vulcano addormentato che una miniera d’argento. Oggi e’ una gruviera di gallerie e condotti che nel corso dei quattrocento anni di intensa attività estrattiva hanno consumato la montagna, erodendone oltre duecento metri d’altezza. All’apice della sua potenza, intorno al XVII secolo, il piccolo villaggio di Potosi si era trasformato nella seconda città più popolosa del mondo, dopo Londra. Duecentomila abitanti, tra schiavi, coloni spagnoli e tutto l’indotto che segue la scoperta di un simile tesoro. La Casa della Moneda, le chiese in stile barocco e le eleganti ville coloniali che punteggiano la città tradiscono i fasti di un passato di splendore e follia. Per tre secoli i lingotti d’argento dell’Alto Perù, l’attuale Bolivia, hanno finanziato sia le casse della corona spagnola che le tasche di pirati inglesi, olandesi e francesi. Ne pagarono le spese migliaia di schiavi indigeni ed africani condotti fino qui per servire, e morire, nelle profondità della terra. Una legge creata ad hoc, la Ley de la Mita, obbligava gli indios e gli schiavi di colore sopra i diciotto anni d’età al lavoro forzato nelle miniere d’argento. I mitayos erano segregati sotto terra per quattro mesi senza che fosse loro concesso di uscire alla luce del sole, costretti a lavorare in massacranti turni di dodici ore entro cunicoli privi d’aria, a contatto con ogni sorta d’effluvio velenoso. La mortalità era elevatissima e la legge era congegnata in modo tale che gli oneri dovuti per il sostentamento dei minatori superassero il magro salario elargito, innescando così una spirale di debiti ripagati con nuovo lavoro e nuove vite. Vite che, mediamente, superavano di poco un anno a causa delle bestiali condizioni di lavoro, degli incidenti e della silicosi. Si calcola che, nei tre secoli di sfruttamento intensivo delle miniere d’argento del Cerro Rico, si sia consumata la morte di otto milioni di schiavi, il tutto per la gloria dei conquistadores. Secondo un antico detto gli spagnoli avrebbero potuto costruire un ponte d’argento da Potosi alla Spagna ed avere ancora metallo prezioso da trasportare.

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Con l’esaurirsi delle risorse la città e’ caduta in disgrazia, ma senza spegnersi del tutto. Tenacemente aggrappata al suo glorioso passato, camuffata sotto una patina di modernità, la tradizione dei mineros e’ giunta praticamente intatta fino ai giorni nostri. Un paradosso tecnologico che si fonda su un metodo di lavoro profondamente arcaico, che ben poco si è evoluto dai tempi dei conquistadores. Nell’era di internet e della globalizzazione all’interno dei pozzi si segue a scavare con le mani, la dinamite, le carriole. I padroni hanno lasciato posto alle cooperative, l’argento allo stagno, qualche mascherina e’ comparsa per proteggere dalle esalazioni, mentre le temperature restano le stesse di sempre, da zero a cinquanta gradi, a seconda della profondità. Povertà e un vago miraggio di ricchezza, probabile come vincere al totocalcio, spinge questa umanità a scegliere volontariamente di lavorare in condizione disumane, e la legge del mercato e’ l’unica a regnare sul formicaio. Poco importa a chi acquista il minerale, pagandolo a peso direttamente dai minatori, sapere come e’ stato estratto. Ma la speranza e’ l’ultima a morire e le formiche continuano a scavare.

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Nonostante i timori, la claustrofobia e il rischio crolli scegliamo di scendere agli inferi per un giorno, poche ore appena in realtà, e vedere con i nostri occhi una vita che segue intatta da centinaia di anni. Non è stato facile, tantomeno rassicurante, soprattutto dopo che l’agenzia ci ha fatto firmare una liberatoria che la scaricava da qualsiasi responsabilità, ma si è rivelata un’esperienza irripetibile, che a suo modo ha portato riflessioni e meraviglia.

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Pochi passi oltre l’ingresso, le tenebre compatte avvolgono ogni cosa. L’unica fonte d’illuminazione è data dalla luce delle lampade elettriche fissate sul casco. Procediamo in fila indiana, strisciando tra i cunicoli bui, scavati dalle mani di migliaia di uomini. E’ un labirinto tridimensionale, la pianta nella mente della nostra guida. Un velo di polvere galleggia nel fascio di luce delle torce, l’aria e’ calda, pesante, e la tosse ci accompagna per tutta la traversata. Gocce piovono dal soffitto, colando da muffe gialle, croste verdi, terra rossa. Piccoli uomini ingobbiti, dalla faccia scura, sfrecciano silenziosi e sicuri attraverso le gallerie buie, alte meno di un metro e rattoppate alla meglio con rudimentali travi di sostegno. Qualcuno scava, altri spingono carrelli, oppure trasportano a spalle i sacchi di minerale. Non si fermano al nostro arrivo, ci riservano una timida indifferenza ma è sufficiente un piccolo regalo, una bibita da noi comprata per l’occasione o una manciata di foglie di coca, per farsi accettare, sia pure per la durata di una visita.

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Nelle nicchie alcune statuette di terracotta rappresentano il Tio, il grande demone che regna nella montagna, cui si deve pagare tributo con offerte di sigarette ed alcool. Immagini inquietanti che fanno parte di questo mondo sotterraneo e della ritualità della vita dei minatori. Esorcizzare le paure e’ il mio obbiettivo di oggi, oltre a sfangare la giornata, e dopo quattro ore all’inferno, per una volta, sono felice di essere una turista e di avere in tasca un comodo biglietto di ritorno.

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Così e’ la vita

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Giorno 586.

Fuori dal finestrino una coppia di binari morti invasa dalle erbacce corre impaziente verso nord e il miraggio dell’altopiano boliviano. Chissà quanto tempo e’ passato da quando l’ultimo treno ha cavalcato queste terre. La nostra esplorazione argentina si congeda qui, nel bel mezzo di un deserto rosso come Marte. In quasi tre mesi siamo scesi fino alla fine del mondo, scavalcando montagne, scivolando lungo laghi ghiacciati e, cinquemila chilometri più a nord da quella gelida ultima frontiera, e’ ancora lo stesso paese. Il verde muschioso dei boschi, i bianchi panorami delle montagne innevate, il vento freddo e le brinate dell’estate patagonica sono solo un ricordo, sostituito da cespugli rinsecchiti e distese di cactus che ricreano una scenografia brulla e quasi ipnotica. Non è cambiato invece il carattere degli argentini incontrati ad ogni latitudine di questo paese che pare non finire mai. Stesso temperamento, uguale gentilezza, ed un’esuberanza tutta latina, che finisce per renderli giusto un poco italiani. Ma la Bolivia e’ tutta un’altra storia.

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Varchiamo la frontiera del paese più povero di tutto il continente con una punta di apprensione, retaggio di racconti metropolitani, liberamente tratti dal manuale del viaggiatore, che parlano di poliziotti corrotti che rapinano o ricattano turisti sprovveduti in cambio di un timbro sul passaporto. Buttiamo via tutte le bustine di zucchero e di sale, giusto perché non si creino spiacevoli equivoci, e ci aggreghiamo come pecorelle ad un altro gruppetto di stranieri ancor più spaesati di noi, con una tacita, quanto inutile, promessa di reciproco aiuto in caso di necessità. Mi sento quasi delusa quando alla fine il doganiere ci degna appena di uno sguardo fugace.

Sotto nuvoloni stranamente gonfi di pioggia ci avviciniamo a Tupiza, cittadina alle porte del Salar di Uyuni, dodicimila metri quadrati per dieci miliardi di tonnellate di sale ed un terzo delle riserve di litio del pianeta. Il Salar e’ la seconda meta turistica del continente dopo il Macchu Picchu e l’unico motore economico della zona. La Bolivia e’ spaccata in due tra regione andina, poverissima, e quella amazzonica orientale, fertile, in pieno sviluppo e con tendenze autonomistiche che mirano a non farsi carico dei connazionali più sfortunati. Rigidi come il loro clima, orgogliosi di una vita dura e di una terra aspra, gli abitanti dell’altopiano sono un brusco risveglio dalla socievolezza cilena ed argentina. Ad una semplice domanda spesso rispondo con un solo cenno della mano, come a scacciar via una mosca fastidiosa. Nelle zone turistiche poi cercano di mungerti come una vacca da latte. Non facciamo in tempo ad uscire dalla stazione degli autobus che già una flotta di donne urlanti e floride, in gonnellone a pieghe ed elegante cappellino, cerca di venderci un biglietto per la prossima città. Come se quella che strilla più forte riuscisse a convincerci meglio. Fuggiamo alla rinfusa, ma mentre attraversiamo le quattro vie del centro in cerca di un ostello veniamo presi in ostaggio dalle agguerrite procacciatrici di almeno tre agenzie diverse. Si vede che da queste parti il business e’ un lavoro da donne. No grazie, per ora voglio solo svenire in un letto.

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La stagione delle vacanze non cala mai da queste parti ed ogni giorno orde barbariche di turisti si riversano a fiumi nella salina più grande e più alta del pianeta. E le agenzie ed i tour organizzati sono l’unico modo per attraversare i cinquecento chilometri di deserto che ci separano da qui ad Uyuni. L’alternativa sono un paio di biciclette cariche come carovane di acqua e viveri per non so quanto tempo, come per una coppia di ciclisti duri e puri che incontreremo lungo il percorso. Ma questa esperienza me la tengo per la prossima vita. Così eccoci qui, seduti sul sedile posteriore di un fuoristrada 4×4 con l’abitacolo invaso dalla polvere che entra da qualche maledetta fenditura sotto i sedili, in compagnia di tre francesi simpatici che parlano un ottimo spagnolo, diretti nel bel mezzo di quello che una volta era un mare che si estendeva fino al lago Titicaca.

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Il nostro Virgilio si chiama Nico ed e’ eseguito a ruota dall’inseparabile cuoco Hector. Entrambi accaniti masticatori di coca, ci iniziano al piacere ruminante delle foglie che pare siano miracolose contro stanchezza, fame e soprattutto sindrome di mal di montagna. Passiamo le giornate imbacuccati nelle giacche a vento, con una bolo di poltiglia amara e verde infilato nelle guance, come criceti golosi e congelati.

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Nei primi giorni di avvicinamento al Salar vero e proprio siamo costretti a sveglie tragiche e tappe forzate. La strada e’ lunga e presto si trasforma in una pista per carovane. Attraversiamo villaggi di fango, dove il numero dei lama supera di gran lunga quello delle persone. Tutti sono un po’ freddi ed ostili. I bambini si nascondo timidi contro i muri delle case, lanciano sguardi muti, e persino i lama ci sputano dai loro serragli e si voltano di schiena al nostro passaggio. Forse pensano che non guardandoci scompariremo da dove siamo venuti. Ed hanno ragione.

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I ruderi di un paese fantasma, distrutto da una pestilenza alcuni anni or sono e’ oggi la dimora di demoni sanguinari, almeno così dicono le leggende locali. Il superstizioso Nico pretende a tutti i costi di attraversarlo prima delle cinque di pomeriggio. Dopodiché non garantisce più per la nostra incolumità.

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Le lagune sono sono gemme colorate adagiate nella sabbia. Spiagge bianche, acque blu, turchesi, rosse. Sullo sfondo vulcani spruzzati di neve e centinaia di fenicotteri rosa a rendere il tutto ancora più magico.

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Gli unici alberi che incontriamo sono di pietra ed ognuno sembra uscito da una creazione di Dali’. La spianata dei geyser e’ punteggiata da crateri fumanti che palpitano fango bollente. Per scaldarci nuotiamo nella nebbia di vapori sulfurei che sale dalla profondità della terra.

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Davanti alla piatta vastità dell’altopiano che si srotola come un tappeto, il bianco e’ abbagliante. Nella stagione delle piogge si trasforma in uno specchio che come un miraggio riflette cielo e nuvole creando una sorta di smarrimento nello spettatore. Ma in questa stagione la crosta di sale e’ secca e dura, percorsa da forme esagonali che si incastrano perfettamente l’una nell’altra come le celle di un alveare. Altre volte si incontrano “coltivazioni” infinite di montagne di sale, pronte per il prossimo raccolto.

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Sparse qua e la piccole colline brulle, ricoperte di cactus, spuntano come isole in un mare di latte. In lontananza il profilo di un vulcano sembra una miniatura. Giochiamo con le prospettive, balliamo in un video che Nico gira per noi comandandoci con piglio da regista navigato, giochiamo ai paracadutisti, incontriamo dinosauri e ce la ridiamo da morire.

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Il vulcano si chiama Thunupa ed e’ la madre del Salar. La leggenda narra che un tempo i vulcani fossero esseri parlanti in grado di camminare, tutti di sesso maschile ad esclusione di Thunupa, che per ovvie ragioni rimase presto incinta. Non sapendo chi fosse il padre, i vulcani cominciarono a litigare tra loro, strapparono a Thunupa il figlio e lo portarono lontano, nella piana di Colchani. Gli dei si infuriarono e per punizione tolsero ai vulcani la mobilità e la parola. Così Thunupa, immobile come una roccia, non potendo più andare in cerca del figlio, pianse lacrime bianche che seccandosi generarono l’immenso distesa di sale. Dedichiamo un’intera mattinata alla sua scalata, attraverso piantagioni di quinoa, rossa e matura come la terra circostante, e risalendo pietraie variopinte. Dalla cima, a quattromila novecento metri ci fermiamo e respiriamo sole, freddo e sale.

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La notte e’ un luogo di silenzio e desolazione, pieno unicamente del sospiro del vento che accarezza ruvido le pareti di sale. Nella miriade di punti luminosi dispersi nel cielo nero del deserto, gialla tondeggiante e quasi intrigante, la luna si innalza spuntando dal costone del vulcano addormentato. La distesa di sale si trasforma in uno specchio d’argento e le bandiere volano nel vento.

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A tre km dal villaggio di Uyuni, nel bel mezzo del nulla, giace il cimitero dei treni. Come siano giunti a morire in questo luogo non è dato sapere. Certo è che i binari nascono e terminano nella sabbia dopo poche centinaia di metri, lo spazio minimo per contenere qualche decina di carrozze corrose ed un paio di locomotive arrugginite. I cimiteri incutono sempre un vago timore, misto ad un sentimento di rispetto e pietà, e la vista di questi grandi pachidermi di metallo destinati a dissolversi indisturbati nel silenzio, per reincarnarsi in nuove opere meccaniche, non fa certo eccezione. Le vecchie carcasse d’acciaio giacciono abbandonate a se stesse come i resti di chi scompare consumato dalla polvere, ma non senza un certo senso dell’umorismo. Una vecchia locomotiva a vapore riporta sui fianchi di ruggine una scritta di vernice bianca in caratteri cubitali : Cercasi meccanico con esperienza… Así es la vida…

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Argentina – Informazioni pratiche

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PUERTO IGUAZU
DA FARE:
Le imponenti cataratte meritano almeno due giorni di visita, nonostante sia necessario pagare due volte il biglietto di entrata al parco. Il lato brasiliano e’ più fotogenico perché consente una panoramica completa delle cascate sul fiume, quello argentino con le sue passerelle mozzafiato ti ci porta proprio dentro.
DORMIRE:
Poramba Guesthouse – 59 Pesos a persona in dormitorio con bagno e colazione inclusa – a breve distanza dalla stazione dell’autobus, offre camere con aria condizionata, giardino con amache, piscinetta un po’ verde ed ampia cucina. Buone le colazioni, ma tante, tantissime le zanzare.

BUENOS AIRES
DA FARE: La capitale argentina e’ una città gigantesca, dagli enormi contrasti. Il caldo dell’estate ci tarpa un po’ le ali, ma grazie alla guida del nostro amico Fernando riusciamo a scoprire anche gli angoli più nascosti della città, tipo la Glorieta di Belgrano per esplosioni spontanee di tango e la Costanera, dove si balla e si mangiano panini con asado e chorizo fino alle prime ore del mattino. I quartieri monumentali del centro e quelli più caratteristici di San Telmo e della Boca meritano più di una visita, così come il cimitero della Recoleta.
DORMIRE:
06 Central Hostel – 130 Pesos in camera doppia con bagno condiviso e colazione inclusa – Uno degli ostelli più economici del centro, soprattutto perché otteniamo uno sconto per lunga permanenza. Dedicato più a persone che stanno in città per lunghi periodi che ai semplici turisti, e’ frequentato da personaggi un po’ naïf, ma il personale e’ gentile, i bagni puliti e la posizione eccellente. Unica pecca, la carenza cronica di padelle in cucina e l’arrivo di un gruppo di sessanta rumorosi brasiliani a ridosso di capodanno, che turbano non poco la routine che si era venuta a creare.

JUNIN DE LOS ANDES
DA FARE: Per noi Junin rappresenta il primo assaggio delle Ande e per questo ne conserviamo un ottimo ricordo. La cittadina e’ la base per le escursioni al vulcano Lanin ed al parco omonimo con i numerosi laghi. Il più bello e’ il Paimun, con acqua cristallina, spiagge di sabbia nera e campeggi eccezionali. L’ascesa alla base del vulcano e’ interessante, e nemmeno tropo impegnativa.
DORMIRE:
Tromen Hostel – 80 Pesos a persona in dormitorio con bagno e colazione inclusa – l’ostello e’ carino ed i proprietari sono una grande fonte di informazioni e suggerimenti per le escursioni nelle montagne dei dintorni.
Camping Piedra Mala – 40 Pesos a persona – il camping e’ posizionato sulle rive del Lago Paimun, vicino ad una spettacolare spiaggia vulcanica, ed e’ probabilmente uno dei più scenografici in cui siamo stati. Si raggiunge camminando un’ora circa dalla fermata dell’autobus, ma ne vale davvero la pena.

VILLA LA ANGOSTURA
DA FARE: Il paese e’ molto turistico, anche se nel senso buono perché ha conservato un’architettura attraente, con case in legno pietra, e ricorda una località delle Alpi. E’ comunque un posto abbastanza commercializzato, con tour ed attività per tutti i gusti. I dintorni sono bellissimi, il lago Nahuel Huapi regala viste mozzafiato, con prati verdissimi e spiaggie bianche simil-tropicali. Il mirador più scenografico, il Cerro Campanario, si raggiunge da Bariloche ad un paio d’ore di autobus. Il parco “Los Arrayanes” protegge una grande foresta di questi alberi dal legno durissimo e dalla corteccia rossa e fredda. Merita una visita, anche se il percorso di 26 km tra andata e ritorno può essere un po’ stancante. Però le barchette turistiche ti possono risparmiare metà della fatica, portandoti all’estremità della penisola, in modo da dover percorrere solo il ritorno..
DORMIRE:
Unquehue Camping – 60 Pesos a persona + 20 Pesos per la tenda – il camping e’ molto grande e ben organizzato, con elettricità nelle piazzole, ampi bagni puliti, ma nel complesso e’ un po’ caro, anche per via dell’alta stagione. L’atmosfera e’ molto piacevole, grazie ai molti studenti argentini in vacanza, ed ogni sera e’ un pullulare di asado, chitarre e chiacchiere fino a notte fonda.

EL BOLSON
DA FARE:
La cittadina e’ molto graziosa e la patria di Hippies in pensione che si dedicano alla coltivazione di bacche e frutti di bosco. Quasi tutti i giorni in centro si tiene una fiera artigianale dove si possono degustare piatti biologici, birre artigianali, crostate di mirtilli e miele locale. Da non perdere un gelato ai frutti rossi dal celebre Jauja. Poi ci sono le escursioni: i sentiero nei dintorni sono numerosi, in un giorno sbrighiamo il super frequentato trekking al Cajon del Azul, bello ma non entusiasmante. Cerchiamo di evitare di ritrovarci in mezzo a migliaia di studenti in vacanza e preferiamo il più impegnativo Cerro Lindo, per gustarci tre giorni di pace e viste mozzafiato.
DORMIRE:
Kali do Sur – 100 Pesos a persona in dormitorio con bagno in comune – in pieno centro e’ un’ottima sistemazione. Il personale e’ gentile e simpatico, le camere piccole ma molto pulite. La cucina ben attrezzata e la sala comune spaziosa, affacciata su un giardinetto con fragole e barbecue a disposizione.
Camping Refugio Cerro Lindo – 40 Pesos a persona – noi campeggiamo vicino alla laguna, dove ogni giorno facciamo il bagno per rilassarci dalle lunghe camminate. Il rifugio offre letti e pasti caldi a prezzi modici. Il bagno e’ all’aperto e la doccia si fa alle cascate. Il mitico signor Julio e’ un personaggio che aggiunge un tocco di carattere al soggiorno.

USHUAIA
DA FARE:
Una delusione. La città e’ grande, costosa e molto affollata a causa dell’attracco quotidiano di gigantesche navi da crociera che sbarcano in certo migliaia di turisti al giorno. I prezzi sono assurdi, per qualsiasi cosa, bar, ristoranti, tour in barca, escursioni al parco, persino gli autobus sono cari. Manca l’atmosfera da fine del mondo che troviamo invece nella meno turistica e sviluppata parte cilena della Terra del Fuoco. Però come tutti vogliamo scendere fino qui, fare la foto col cartellone e poter dire di esserci arrivati.
DORMIRE:
Camping Pista del Andino – 60 Pesos a persona – l’unica sistemazione disponibile in città in alta stagione, ad un prezzo ragionevole. Il camping e’ lontano dal centro, ma offre una buona vista sullo stretto, bagni con acqua calda ed una baita chiusa e riscaldata dove poter cucinare e passare le giornate piovose con un discreto WIFI.

EL CALAFATE
DA FARE:
La cittadina e’ super turistica e centinaia di agenzie offrono Tours in barca per risalire fino alla base dei numerosi ghiacciai che fanno parte del Parco Nazionale Los Glaciares. Noi visitiamo il più famoso Perito Moreno, l’unico raggiungibile via terra con autobus o autostop. La giornata purtroppo e’ infame ed un vento gelido scende diretto dal mare di ghiaccio. Nelle giornate di sole, grazie alle temperature più elevate, in teoria si dovrebbero vedere molte più frane di ghiaccio, ma lo spettacolo e’ comunque emozionante.
DORMIRE:
El Ovejero Camping, Hostel y Restaurante – 65 Pesos a persona in dormitorio con bagni del campeggio – il camping e’ situato a pochi passi dal centro. Offre piazzole ben attrezzate, dormitori economici ricavati all’interno di alcune costruzioni prefabbricate e riscaldate, oltre ad alcune camere più costose nella parte definita propriamente ostello, dotata di cucina e bagni interni. Da non perdere e’ un asado nel ristorante del campeggio, uno dei più rinomati della città, a prezzi abbordabili e porzioni giganti.

EL CHALTEN
DA FARE:
Di trekking ce ne sono da togliersi la voglia. Noi facciamo un mini circuito di tre giorni, e due notti, per raggiungere la base del Fitz Roy e del Cerro Torre, risalendo fino alla Laguna Piedras Blancas. Per questioni di tempo saltiamo l’escursione alla Laguna Toro, che invece consigliamo, perché dal rifugio e’ possibile raggiungere una vetta piuttosto impegnativa, che regala nei giorni di sole la vista sull’intero Campo de Hielo Sur.
DORMIRE:
Camping Hostel del Lago – 80 Pesos a persona in dormitorio con bagno privato – l’ostello e’ il preferito da scalatori, professionisti e non, in visita ad El Chalten e in attesa delle condizioni meteo ideali per organizzare le proprie uscite. Le camere sono pulite e riscaldate, con bagno privato. L’ambiente comune e’ ampio, con grandi tavoli di legno, TV e cucina attrezzata. L’atmosfera e’ allegra e festaiola, a volte anche troppo.
Campamento Poincenot – gratuito con servizi igienici, ma niente docce – situato in un bosco riparato a poca distanza dal torrente, e’ il punto di partenza ideale per scalare la base del Fitz Roy ed assistere all’alba dalla Laguna de Los Tres.
Campamento De Agostini – gratuito con servizi igienici, ma niente docce – il campeggio e’ più scoperto ed esposto al vento. Si trova a qualche centinaio di metri dalla Laguna Torre, alla base dell’omonimo Cerro Torre.

LAGO DEL DESIERTO
DA FARE:
Da El Chalten raggiungiamo Villa O’Higgins a piedi, l’ultima città della Carretera Austral. In assenza di trasporti pubblici e di traffico in generale, dal paese siamo costretti a prendere un taxi fino al Lago del Deserto. Con l’ultima lancia delle cinque del pomeriggio attraversiamo il lago e sbrighiamo le pratiche alla frontiera Argentina. Proseguiamo con un trekking di un paio d’ore, per raggiungere la parte alta della valle dove campeggiamo in mezzo al niente. Il giorno seguente percorriamo i sedici chilometri che mancano per raggiungere Candelario Mansilla e la frontiera cilena. Nel primo pomeriggio una barca attraversa il Lago O’Higgins e ci conduce all’omonimo villaggio. E’ necessario portarsi cibo sufficiente per tutto il tragitto, mentre l’acqua si può tranquillamente bere dai torrenti lungo il percorso.
DORMIRE:
Camping libero – il personale alla frontiera insiste affinché si raggiunga un’area attrezzata già in territorio cileno, ma la maggior parte di quelli che affrontano la traversata si ferma a dormire ancora in Argentina. Appena prima dei cartelli che segnalano il confine, si trova un’area erbosa con acqua corrente ed alcuni archi in ferro, scheletro di qualche installazione militare abbandonata. E’ il luogo ideale per campeggiare.

SALTA
DA FARE:
Considerata la città più bella di tutta l’Argentina, per noi europei e’ forse un’affermazione eccessiva, il centro in stile coloniale e’ grazioso e vivace. L’attrazione principale e’ una visita alla monumentale Quebrada del Cafayata, lungo la strada che conduce all’omonima città e che dista un centinaio di chilometri. Da non perdere una visita al Museo Archeologico di Alta Montagna, dove ogni giorno a mezzogiorno si può usufruire di una visita guidata gratuita, inclusa nel biglietto. All’interno si conservano le mummie congelate di tre bambini inca, vittime di sacrifici umani, ritrovate sulla cima del Llullaillaco. Un’esperienza intensa e molto interessante, soprattutto se accompagnata dalle spiegazioni di una guida.
DORMIRE:
Exxes Hostel – 60 Pesos a persona in dormitorio con bagno in comune – l’ostello e’ molto poco curato, alcuni bagni sono rotti, le camere sono prive di finestre, la cucina mal attrezzata, i cuscini di polistirolo. Quasi a parità di prezzo il 7 Duendes, a mezza quadra di distanza, e’ sicuramente una scelta migliore.
7 Duendes Hostel – 70 Pesos a persona in dormitorio da due con bagno in comune e colazione inclusa – poco lontano dalla stazione degli autobus, a sud del centro, l’ostello offre camere pulite, bagni funzionali, una grande cucina completamente attrezzata ed un ampio giardino interno con prato e salotto tv. Buon WIFI.

CACHI
DA FARE:
La parte migliore da vedere e’ la strada che da Salta sale fino all’altopiano di Cachi, con scorci suggestivi e curve da brivido. La cittadina e’ tranquilla con un centro vecchio in stile coloniale e case intonacate di bianco. Nei dintorni ci sono alcune rovine preincaiche e nei pressi del piccolo aeroporto pare che di notte si intravedano strane luci danzare nel cielo. Parola di Antonio Zuleta, ufologo per passione.
DORMIRE:
La Mamama – 120 Pesos in camera doppia con bagno in comune – ottima accoglienza per quest’ostello ricavato in una vecchia casa con cortile. Camere ben arredate con pavimenti in legno di cactus, cucina a disposizione e bagni con acqua calda.

TILCARA
DA FARE:
Il paese e’ molto sfruttato come base per visitare i villaggi circostanti. Evitiamo i trekking nei dintorni e ci concentriamo sulle attrazioni principali. La super turistica Purmamarca con il celebre Cerro de los Sietes Colores, visitabile con un breve circuito di un’ora di cammino. E la Paleta del Pintor, con belvedere in pieno cimitero, un po’ macabro ma davvero suggestivo.
DORMIRE:
Hostel El Andaluz – 180 Pesos in camera doppia con bagno privato e colazione inclusa – in paese e’ sicuramente la sistemazione più economica. La camera e’ confortevole, anche se l’ostello nell’insieme e’ piuttosto essenziale. Cucina spartana e colazione basica, ma l’ambiente e’ molto rilassato e lo staff simpatico. Visti i prezzi in paese non ci possiamo davvero lamentare.

HUMAHUACA
DA FARE:
Pochi si fermano in città per visitare la quasi sconosciuta Serrania del Hornocal. Tutti i giorni, nei pressi del ponte, si trovano jeep 4×4 con cui contrattare un passaggio andata e ritorno fino al belvedere, a quattromila metri di altitudine e venticinque chilometri dal centro, da cui si può godere del panorama più suggestivo di tutta la valle a nord di Salta. Sono dodici chilometri di montagne stratificate in diversi colori. Un paesaggio unico e poco frequentato.
DORMIRE:
Posada El Sol – 200 Pesos in camera doppia senza bagno con colazione inclusa – bellissima location per questo ostello situato al di la del ponte, a circa un chilometro dal centro. Dispone di diverse camere caratteristiche all’interno di un giardino ben curato. Cucina a disposizione e personale molto gentile.

NOTE:
Cambio Dicembre 2013 / Marzo 2014 – 1 euro = 13 Pesos circa cambiati al mercato nero

Supernatural

Standard

Giorno 577.

L’Argentina ti sorprende sempre. E non solo per i prezzi che lievitano a vista d’occhio per via della scellerata politica monetaria del governo di Cristina Kirchner. E nemmeno per la somiglianza della Presidenta con l’uomo che ha dominato la scena politica italiana negli ultimi vent’anni: populismo e faccia di plastica vi ricordano qualcuno? Le sorprese a cui mi riferisco sono quelle di un paesaggio che varia moltissimo da nord a sud, da est ad ovest, e che non manca mai di affascinare per la sua grandiosa bellezza.

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La capitale del Nordovest e’ Salta, detta “la linda”, la bella. Sarà anche meglio di molte altre città argentine, ma non e’ niente di eccezionale soprattutto se si giudica con standard europei, dove quasi ogni centro storico e’ un capolavoro d’arte urbana rispetto a quasi tutte le città del Sudamerica che abbiamo visitato sinora. Però c’è un bel museo archeologico, in cui si possono osservare le uniche tre mummie al mondo non secche, nel senso che conservano ancora al loro interno i liquidi corporei. Ritrovate sulle Ande, congelate a più di seimila metri d’altezza, vengono conservate dentro teche di vetro, con una particolare tecnica di refrigerazione che ne consente il mantenimento della struttura molecolare. Si tratta di un bambino, una bambina ed una ragazzina, vittime cinquecento anni fa di un sacrificio umano incaico. Questi figli di notabili inca venivano prescelti a Cusco attraverso cerimonie rituali, trasportati per centinaia di chilometri, ubriacati e drogati fino a morire di ipotermia sulla cima di qualche vetta andina considerata sacra, per ingraziarsi le divinità o placare una sciagura. Sembrerà strano, ma per le famiglie degli sventurati era un grande onore. O almeno questo e’ quello che ci viene raccontato, anche se mentre guardiamo uno dei piccoli rannicchiato in posizione fetale, cercando di immaginare quello che deve aver provato mentre si addormentava per l’ultima volta, lontano da casa, avvolto nei suoi abiti cerimoniali con i capelli intrecciati a festa, conserviamo i nostri dubbi.

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Ma il meglio e’ fuori città. Verso sud la Quebrada di Cafayate e’ un torreggiare di rocce rosse che emergono come castelli nel deserto, intervallate da pareti di pietra colorata e stratificata. Sulla mappa sono quasi cinquanta chilometri punteggiati da siti di interesse dai nomi evocativi che costringono i turisti ad accostare per scattare qualche foto. La Garganta del Diablo, l’Anfiteatro, la Yesera, el Sapo, el Castillo. Come al solito evitiamo i tour e compriamo un biglietto di sola andata su un autobus locale. Ci affidiamo alla buona sorte per incontrare qualche volenteroso che si faccia carico di scorrazzare due italiani autostoppisti tra tutte queste meraviglie. La strategia vincente e’ vecchia come il mondo, io che mi nascondo dietro un cespuglio e mando avanti mia moglie. Ci raccoglie una coppia di Buenos Aires, tutti gli argentini sono di Buenos Aires. Sono gentili ma troppo frettolosi, i classici maniaci di uno scatto e via, così decidiamo di percorrere la strada al ritroso, sempre con autostop, per goderci meglio il paesaggio e fare qualche sosta in più.

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A Cachi, paesino sperduto tra montagne di cactus, Antonio Zuleta va a caccia di UFO. Lo incontro nella piazzetta davanti alla chiesa, e mi intrattiene per un’ora buona con le sue teorie, nemmeno troppo bizzarre, sugli avvistamenti di oggetti volanti non identificati nella zona. Mi dice che l’ora migliore e’ verso le otto e mezza di sera, vicino alla pista di atterraggio…che gli extraterrestri si stiano preparando ad un’invasione? La sera sbirciamo su internet, e scopriamo che in Argentina un famoso giornalista ha persino dedicato un servizio in TV all’argomento…e nel video si vedono chiaramente, nel cielo stellato, sorgenti luminose che si muovono in modo perlomeno “strano”, tanto da lasciare basito il giornalista stesso…d’ora in poi aspetteremo fiduciosi una comunicazione aliena, non si sa mai…

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A nord invece, verso il confine con la Bolivia, e’ la volta di piccole comunità Quechua disseminate tra canyon in multicolor, cactus come candelabri e cimiteri in collina ornati di fiori di plastica. Nel paesaggio secco e quasi desertico, il ghiaccio della Patagonia sembra ormai appartenere ad un’altra dimensione. Per quanto turistiche, Purmamarca, Tilcara e Humahuaca costituiscono una vera lezione di geologia, con le rocce che si piegano spinte dalle forze tettoniche, rivelando strati di colori iridescenti, dal rosso al giallo, dal verde al rosa, al bianco. La zona più spettacolare e’ quella chiamata Serrania del Hornocal, a pochi chilometri dal paese di Humahuaca. E’ anche incredibilmente la meno visitata, snobbata dalle guide di viaggio e di conseguenza dai turisti. Ci godiamo la meraviglia in perfetta solitudine, circondati da vigogne selvatiche e stremati dalla mancanza d’ossigeno a 4500 metri. E ringraziamo il nostro amico Ferran che ce l’ha fatta conoscere.

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A Iruya ci regaliamo un trekking di un paio di giorni fino ad una comunità indigena locale. Il villaggio di San Isidro sembra un paese fantasma ed completamente isolato dal mondo. Si raggiunge risalendo un sentiero che a tratti scompare inghiottito dal letto di un fiume neanche tanto secco, visto che ci tocca guadare diverse volte il torrente ghiacciato con l’acqua fino alle cosce. I muli sono il mezzo di trasporto per eccellenza. Più preziosi di una Ferrari per gente che vive tra le montagne senza strade. Con Elodie e Gaston passiamo due giorni alla scoperta di un mondo diverso, popolato da vecchi che quasi non parlano spagnolo e da cui i giovani fuggono in cerca di distrazioni. Un’esperienza interessante, a parte lo scorpione che esce dal bagno nel cuore della notte e che per poco non mette in fuga anche noi…

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