Giorno 87.
Il villaggio della nostra famiglia adottiva e’ disperso da qualche parte nelle montagne boscose intorno a Leishan. Qualche casa in tutto, per la maggior parte in legno vecchio, reso scuro ed umido dal tempo. C’è un gran fermento in giro, si sente l’elettricità nell’aria, quella prima delle feste. Le famiglie si preparano per le mangiate pantagrueliche e con cura predispongono fuori casa un arsenale di fuochi d’artificio, minacciosi e ben allineati. Nei cortili le donne si lavano i capelli nelle bacinelle, altre preparano focacce di colla di riso, battendole con un pesante martello di legno, quando la cucina diventa fatica. Sono tutti intenti a pelare, a spennare, mentre il buonumore dilaga. I parenti di Ley hanno comprato tre maiali per l’occasione e domani sara’ il gran giorno della macellazione, rigorosamente fatta in casa. Nonostante l’invito a fermarci, saremo già lontani, per mia fortuna.
La casa e’ lontana dalla strada, un sentiero di cemento battuto scende in mezzo alle terrazze di riso per alcune decine di metri. Il marito di Ley sta costruendo una nuova abitazione per i genitori, proprio accanto a quella vecchia che cade letteralmente a pezzi e che a lavori ultimati verrà misericordiosamente abbattuta. I genitori sono contadini di una volta, producono da soli quasi tutto ciò che consumano, dal riso al tabacco, dalla legna da ardere al peperoncino, e sono decisamente orgogliosi del figlio, si vede: con immensi sacrifici devono averlo fatto studiare ed oggi è un architetto con una buona posizione ed una moglie Han. Il padre e’ un uomo di mezz’età dal sorriso ampio e la giacca rattoppata, che siede a disagio sul divano nuovo, ancora fresco di celofan, forse il primo della sua vita. La madre e’ minuscola, indossa una casacca turchese di velluto ricamato a mano e copre l’elaborata acconciatura tradizionale con un asciugamano da bidè, credo per non sporcarsi i capelli in cucina. Se lo sfila raramente e solo per farsi fotografare. Pranziamo nella vecchia casa, su minuscole panchette di legno, in una stanzetta buia ed annerita dal fumo, l’unica con il riscaldamento centralizzato, costituito da una grossa stufa a legna posta al centro che usiamo anche come tavolo. Zuppa di anatra, pollo con verdure e riso bianco, appesi alla pareti intorno a noi penzolano peperoncini e patate dolci. Il pranzo e’ gustoso anche se la carne e’ molto grassa, ma a loro sembra piacere così soprattutto la pelle che io invece trovo durissima e quasi immasticabile. Continuo a sorridere e ad inghiottire i bocconi interi.
Hau Hau ha due anni, non parla e barcolla quando cammina, ma usa l’iPhone e ama la “danza”. Cerca sul cellulare di sua madre Ley un videoclip di musica tecno-cino, decisamente tamarra, e si diverte ad imitare i ballerini, mentre sgambettano sullo schermo in improbabili completini verde fosforescente e giallo limone. Alza il volume a stecca, saltella qua e la ad un ritmo incessante e psichedelico, batte le mani e si butta per terra quando anche i suoi beniamini lo fanno. Va avanti così per ore, copiando le mossette come un artista consumato, sempre e solo la stessa canzone che spacca i timpani (e le balle) a tutti quanti, familiari compresi. Poi, alla duecentesima volta che la scena si ripete, quando il cellulare ormai e’ scarico ed è pure ora di finirla perché il pranzo e’ servito, lui piange disperato. I nonni hanno appena preso un cucciolo di cane spelacchiato e puzzolente, e lui per consolarsi si mette a strapazzarlo senza pietà, come un uovo al tegamino. Lo seguo con lo sguardo, preoccupata perché credo che lo farà cadere nella stufa e ci toccherà mangiarlo a cena. Questo bambino e’ un toro. Un’ora prima, mentre suo zio lo sorvegliava, e’ caduto dal sentiero di cemento dietro casa e si è scorticato mezza faccia, ma non ha quasi versato una lacrima. Suo nonno, intento a spennare l’oca, e’ accorso fulmineo e con mano sapiente ha coperto la ferita con foglie di tabacco fresche, appena tritate. Incredibilmente ha smesso subito di sanguinare.
Dopo pranzo vado a fare due passi dietro casa, dove trovo Hau Hau tutto solo nel luogo in cui poco prima si è spaccato la faccia, mentre grida ed indica agitato verso la cima del sentiero. Apprensiva, lo stringo per mano e lo accompagno su per la salita, per capire cosa sta cercando. Troviamo il suo cucciolo pancia all’aria, tra le zampe di un altro cane adulto e ringhiante. Hau Hau si dibatte dalla mia stretta, vuole salvare il suo amico! Cazzarola non so che fare: mentre cerco di afferrare il cagnetto, senza lasciare la mano del bambino per evitare che si butti di nuovo giù dalla scarpata e senza farmi mordere dall’altro cane, Hau Hau parte all’attacco vorticando calci e pugni al cattivone e riuscendo a fargli mollare la presa. Giustizia e’ stata fatta, sollevata e sbigottita della grinta dimostrata dal mio nuovo piccolo amico, trascino via entrambi prima che sopraggiunga qualcos’altro a guastarci il lieto fine. Hau Hau dal canto suo pare molto soddisfatto.
La nostra famiglia passa il pomeriggio a spadellare, affannata nei preparativi del grande party notturno. Tutti cucinano uomini compresi, mentre le donne a turno si preparano indossando gli abiti tradizionali di ciniglia blu e si acconciano le chiome in enormi pomodori, puntati sul capo con sgargianti fiori di plastica e pettinini d’argento. In realtà si aiutano con capelli finti, lunghe code di cavallo che incrementano i volumi, come una specie di push up. Noi ci leviamo di torno per lasciarli lavorare, seguiamo il padre di Ley nei boschi, alla ricerca di fantomatiche ghiande, un po’ nocciole un po’ castagne, che non riusciremo mai a trovare. Il vecchio sembra quasi intimorito dalla nostra presenza, dall’impossibilità di comunicare con noi, e quando gli spieghiamo a gesti che intendiamo tornare al villaggio, mi pare quasi sollevato. L’aria e’ satura di umidità, la nebbia inizia a salire dal fondovalle e fa sembrare la vegetazione ancora più folta, camminiamo su tappeti di foglie morte e ghiande cadute. Attraversiamo il villaggio e le risaie, passiamo accanto a una famiglia che sta macellano un capretto, cammino ad occhi bassi, non voglio vedere l’agonia della bestiola, mi basta il suo belato.
Tradizionalmente la festa propiziatoria del nuovo anno coinvolgeva l’intero villaggio. Oggi ogni famiglia fa per conto suo, ma tutte con le stesse regole. Tre cose devono abbondare come buon auspicio per l’anno a venire: i fuochi d’artificio, il cibo e gli invitati. Al nostro party arrivano almeno cinquanta persone dalla città, tutti coi SUV, tutti troppo eleganti per finire stipati nel futuro salotto dell’edificio ancora in costruzione, coi divanetti di vimini appena usciti dal celofan. Le donne affondano nel fango sul loro tacco dodici e quando chiedono dov’è il bagno le immagino scarpinare nel buoi, in mezzo alle risaie ed alla merda di gallina, fino alla latrina. I petardi scoppiano senza sosta, nel nostro cortile, nei cortili delle altre case del villaggio, nei cortili di tutte le case di tutti i villaggi della valle. I fuochi di artificio brillano enormi sopra di noi, illuminando la campagna, a dimostrazione del fatto che questi cinesi con il kit del piccolo piromane sanno quello che fanno. Per oltre un’ora, sembra una gara o una guerra. I maiali impazziti, nell’ora dell’ultima cena, cercano di fuggire dalla porcilaia, senza risultati.
Passiamo la serata tra giocatori incalliti di mahjong e vino bianco distillato in casa che la vecchia madre fa tracannare a tutti i convitati dalla stessa tazza sbeccata, mentre intona canti antichi. Nemmeno ora ha tolto il suo asciugamanino. Il cucciolo, terrorizzato dai boati, e’ stato rinchiuso in una gabbia, mentre Hau Hau spadroneggia tra gli ospiti. Fede seduto accanto al padre non riesce più a sganciarsi, il vecchio continua a farlo bere e brindare, mentre lui sfoggia un sorriso forzato, gridando “campai”. Lo vedo fingere quando può, ma l’uomo gli rabbocca in continuazione il bicchiere, temo per la sua incolumità. Poi la musica si spegne, gli amici se ne vanno, troviamo un passaggio per la città. Il padre ci accompagna fino alla strada, non vuole lasciarci andar via. Non la finisce più di abbracciarci, di salutarci, di ringraziarci, di cosa poi quando siamo noi ad essere commossi da tanta ospitalità. Aspetta con noi finché il mega SUV non viene a caricarci. Mentre saliamo in macchina il vecchio è ancora li, al buio, con la sua giacca scucita, alla cima del sentiero che ci saluta con la mano. Sta piangendo.