Archivio mensile:febbraio 2013

Cave Connection

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Giorno 176.

Sagada e’ un villaggetto di montagna dove case foderate di lamiera si incastrano fra taglienti picchi di roccia, in una vegetazione quasi alpina. La località e’ famosa per le hanging coffins, letteralmente bare appese. Secondo la pratica animista, colorate bare di legno vengono fissate alle pareti rocciose, o impilate all’interno delle numeroso grotte sparse nella zona come immense piramidi mortuarie, dando origine a questa tradizionale forma di sepoltura, mantenuta poi anche dopo la conversione al cristianesimo. Qualche sedia appesa accanto alle bare sembra aspettare chi vuole offrire ai defunti un po’ di compagnia, o forse sono lasciate li’ agli spiriti, nel caso in cui si stufassero di stare sdraiati. Qua e la’ un cartello prega i turisti di non trafugare ossa o altri resti, anche se stento a credere che qualcuno abbia voglia di farlo, ma con i turisti locali non si può mai dire…

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Il momento clou della visita si concretizza nell’ennesima escursione in grotta. Prenotiamo quella lunga, la Cave Connection la chiamano, perché entri da una bocca nella montagna e ne esci dall’altra parte. Sono tra le quattro e le cinque ore di discesa, per un dislivello di centosessanta metri nel buio totale. La guida e’ obbligatoria grazie al cielo, perché la difficoltà del percorso e’ massima: livello esperti, cioè very hard. Sprizzo gioia da tutti i pori e se non fosse che Fede mi abbocca con una colazione a base di torta limone e miele, non riuscirebbe nemmeno a farmi uscire di casa.

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Larry e’ il più bel manzo filippino mai visto fino ad ora. Salta da una roccia all’altra in un paio di infradito più vecchie di lui, mentre regge sulla testa una lanterna ad olio che peserà almeno cinque chili. Noi procediamo lentamente, con la prudenza degli indecisi che ancora non sanno cosa li aspetta. Seguiamo la sua scia luminosa, mentre le ombre si proiettano sulle pareti ruvide, piene di riflessi. Affrontiamo la maggior parte della traversata scalzi, perché umidità ed infiltrazioni d’acqua rendono il percorso insidioso e sdrucciolevole. Detesto camminare a piedi nudi nel buio, penso continuamente a ragni e serpenti, e’ più forte di me. Comprendiamo immediatamente perché l’ausilio di una guida locale sia fondamentale, visto che dopo l’immensa caverna di ingresso il tunnel si frammenta in una miriade di biforcazioni sotterranee che trasformano la montagna in un labirinto per talpe esperte. Dopo il primo quarto d’ora infatti incontriamo una coppia di turisti filippini già in età e nemmeno troppo sportivi, che non saprei se definire folli o temerari. Li raccattiamo mentre vagano indecisi come bimbi sperduti, forse alla ricerca di molliche di pane, salvandoli da morte certa.

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Il percorso e’ davvero impegnativo e le emozioni non mancano. Ad ogni bivio, la via giusta e’ sempre la più impervia, il classico buco nero che uno non sceglierebbe mai. Ci caliamo dentro pozzi verticali tanto stretti da dover tenere il fiato e scaliamo cascate di travertino appesi a corde fissate da qualche parte nel buio, sopra le nostre teste. Nel passaggio più difficile Larry aiuta la donna filippina inginocchiandosi e facendola salire sulle spalle. Io osservo attentamente perché subito dopo e’ il mio turno. A questo punto la signora reggendosi alla corda dovrebbe arrampicarsi per un paio di metri fin dove il marito, salito per primo, funge da secondo aiutante verso l’ascesa finale. Purtroppo l’intrepida scivola e inizia ad ondeggiare, tipo Tarzan su una liana, proprio sopra il baratro che scende a picco verso il fondo della grotta. Larry scatta fulmineo e riesce ad acchiapparla, mentre la poveretta urla e ad occhi chiusi stringe ferocemente la corda cui è appesa. Perfetto, adesso tocca a me, Larry sorride ma leggo la tragedia scampata nei suoi occhi. Mi aggrappo con tutte le mie forze e mi giro pure verso Fede per una foto ricordo, anche se direi che terrorizzata e pallida sono gli unici due aggettivi che mi si addicono in questo momento.

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Superiamo la prova della grotta indenni, anche se l’immagine della donna penzolante ci rimarrà ben impressa nel cervello. All’imbrunire ci aggiriamo in cerca di cibo, con quel vago senso di euforia che ti accompagna quando senti di aver misurato le tue forze in un’impresa più grossa di te. Più tardi incontriamo un danese grasso che rientra al villaggio stremato. Imbarazzato ci racconta di aver passato il pomeriggio incastrato in un passaggio della grotta, come un tappo di bottiglia infilato in un collo troppo stretto. Ridiamo sotto i baffi mentre immaginiamo la guida che cerca di stapparlo ungendolo come una cotoletta, nel vano tentativo di farlo scivolare dentro il pozzo. Poi guardo Fede e ringrazio il cielo che abbia perso qualche chilo durante il viaggio, perché davvero ci mancava solo questa.

Kalinga style

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Giorno 173.

Arriviamo a Tinglayan dopo la solita transumanza di bus e jeepney, oltre ad una sosta forzata per la notte nella derelitta città di Tabuk, causa assenza di mezzi di trasporto fino alla mattina seguente. La Cordillera ci accoglie con pioggia, nebbia e quel cielo grigio che non avevamo più trovato dai tempi della Cina e del Capodanno Miao. Le strade del villaggio sono un fiume di fango ed escrementi di maiale in cui ci aggiriamo alla ricerca di un posto decente per dormire. Attraverso un ponte sospeso a prova di vertigini, raggiungiamo la frazione di Luplupa e nella desolazione del villaggio, poverissimo, riusciamo miracolosamente a sistemarci al River Side Inn, un posto semplice gestito da Ottmar e Isabel, una simpatica coppia tedesco-filippina, che conferisce alla nostra spartana sistemazione un decoro piacevolmente inaspettato. Passano quattro mesi qui ed otto in Germania, sul Lago di Costanza. Sono allegri ed ospitali, forse troppo dato che Ottmar ci racconta che tutti i vicini in difficoltà vanno da lui a chiedere prestiti che puntualmente non restituiscono… Per chi si chiede cosa siamo venuti a fare in un luogo così dimenticato da dio, la risposta e semplice, raggiungere Buscalan, un villaggio spettacolare sospeso nel tempo tra montagne e risaie a terrazza, per conoscere una donna di novantadue anni, della tribù Kalinga. A che pro? Perché e’ semplicemente l’ultima rimasta di una stirpe di tatuatori che discende dalle tribù di cacciatori di teste che popolavano le montagne circostanti. La vecchia signora secondo tradizione tatua rigorosamente a mano, usando spine al posto degli aghi e i suoi lavori, soprattutto le scolopendre, sono molto ricercati da locali e turisti occidentali, tanto da creare a volte una lista d’attesa di diversi giorni. Purtroppo la sfiga, sotto forma di tempesta tropicale, si accanisce contro di noi. Tre giorni di pioggia battente hanno reso il sentiero impraticabile e la situazione non accenna a migliorare, per cui siamo costretti a rinunciare alla visita ed io al mio tatuaggio. Pero non sono stati giorni buttati, perché tramite Ottmar e Isabel conosciamo alcuni aspetti di un’etnia, quella Kalinga, molto particolare. Tra i bellicosi villaggi della zona e’ in vigore una sorta di trattato di pace, che consente loro una convivenza pacifica per la maggior del tempo. Se però il patto viene rotto, e basta la fuoriuscita di una goccia di sangue in una lite tra adolescenti, allora vale tutto. Si scatenano vere e proprie guerre tra un paese e l’altro, che non includono solo i litiganti e le loro famiglie, ma costringono alla vendetta l’intero villaggio. La presenza nella zona di una armata di ribelli comunisti (sempre i soliti eh…) favorisce la circolazione di armi, tanto che le deboli forze di polizia locali spesso preferiscono non intervenire, rintanandosi nelle loro piccole caserme e lasciando che i montanari se la sbrighino da soli. Le situazioni di tensione sono più frequenti di quanto si possa immaginare e proprio mentre noi siamo in visita Otmar ci racconta di una lite a scuola finita a coltellate che ha rotto la pace tra due villaggi vicini. Possono seguire scontri a fuoco nei boschi, omicidi e rappresaglie di vario genere, finché le lunghe trattative tra soggetti specializzati, tipo peacekeeper, non raggiungeranno un nuovo accordo… Una specie di faida mafiosa, che stabilisce il prezzo del sangue. Un’altra usanza curiosa, questa volta pacifica, consiste nel sacrificio di un bufalo a testa per i figli di un defunto. Gli animali vengono cucinati e poi offerti agli abitanti del villaggio durante la grande abbuffata che segue il funerale. Più il bufalo e’ imponente, più si dimostra pubblicamente considerazione per il parente mancato, raccogliendo, a seconda dei casi, l’approvazione o il disappunto collettivo. Essendo un bufalo molto costoso, questa pratica porta inevitabilmente all’indebitamento e spesso alla rovina di intere famiglie, ma la tradizione non si può rompere, pena la perdita della faccia e dell’onore di fronte a tutta la comunità, cosa che i Kalinga considerano peggiore della morte.

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Il sabato del villaggio

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Giorno 170.

Attraverso la contorta geografia stradale di questo lembo di Luzon, inseguiamo il nord dell’arcipelago fino al villaggio di Pagudpud, un paesino di case dignitose, strade pulite e straripante vegetazione tropicale organizzata in file di aiuole ordinate di palme e buganvillee, perché da queste parti anche la catapecchia più malconcia non dimentica di curare il giardinaggio. Anche alle Filippine come in Italia e’ tempo di elezioni, locali o provinciali non si capisce. Le strade sono tappezzate da fotoritratti di candidati dai nomi latinoamericani con echi religiosi, che sembrano usciti direttamente di galera, anche se si atteggiano ad attori di fotoromanzi di serie B.

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Dopo diverse ore di autobus a temperature polari, arriviamo a destinazione. Noleggiamo un tricycle a peso d’oro per percorrere gli ultimi 20 chilometri che ci separano dal paradiso tropicale tanto atteso. Seguiamo una scia di pietre bianche appena verniciate che costeggiano la strada e ci indicano il percorso, come molliche di pane fitte e regolari anche in mezzo ai boschi, e mi chiedo chi mai si prenderà la briga di occuparsi di una cosa così inutile. Tanto per cambiare minaccia pioggia e quando facciamo capolino sulla spiaggia di Lagoon Bay il vento arriccia il mare in cavalloni spumosi così minacciosi, che non so dove troveremo il coraggio di fare il bagno. Un immenso resort domina il panorama tra centinai di bungalows superaccessoriati che spuntano come funghi, mentre una gigantesca scritta in stile holliwoodiano troneggia sulla baia scandendo in lettere capitali la scritta HANNAH’S. La costa brulica di turisti filippini intimoriti che sfidano il maltempo intingendo i piedi sul bagnasciuga senza preoccuparsi di inzuppare i vestiti fino al ginocchio. I più temerari ci volano sopra la testa legati ad una fune metallica che li scaglia per alcune centinaia di metri dalla cima del promontorio direttamente sulla spiaggia, tutti rigorosamente muniti di caschetto colorato che dovrebbe proteggerli in caso di caduta sugli scogli (!?!). Quando ci viene mostrata una delle poche stanze economiche disponibili, gettiamo la spugna sconfitti dalla sporcizia e dal prepotente odor di muffa. Decidiamo di provare altrove. Mentre risalgo sul tricycle vengo sopraffatta dallo sconforto e dall’aria fredda della sera.

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A Saud Beach le cose vanno meglio. Riparata dentro un ampio golfo che la protegge dal vento, la spiaggia si stende innanzi a noi con i suoi due chilometri di sabbia bianca incontaminata e acque quiete e cristalline. Pochissimi turisti, un tramonto incantevole in cui il sole si tuffa proprio al centro della baia, qualche pescatore che si aggira tra le capanne e la sagoma in lontananza di barche tirate in secca, dipinte con un’intensa tonalità di azzurro che si confonde con il colore delle onde… La solita meraviglia tropicale insomma, quella che ti fa odiare da amici e parenti sepolti dalla neve di un rigido inverno astigiano. Medito perfidamente di costruire un pupazzo di neve con la sabbia ed una mezza noce di cocco al posto del cappello, per metterlo su Facebook e far morire tutti dall’invidia, ma la spiaggia e’ grezza e contiene così tante conchiglie e coralli che non si riesce a farla cementare..

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Nel sabato del villaggio gli abitanti si ammassano sotto il tetto dell’unico bar del paese, mentre l’alcol scorre a fiumi e si balla tutti insieme Gangnam Style. Si celebra la grande vittoria della super coppa dei villaggi conquistata dalla squadra di basket locale, un’accozaglia sgangherata di ragazzini in canottiera con l’aria da teppisti. Ci sistemiamo in un posto carino, lontano dalla confusione, dal prezzo non economico ma accettabile, presso un resort ancora in costruzione. Il padrone e’ un uomo entusiasta che si aggira affaccendato tra camere e operai con il trapano sempre in mano ed un cappellino da baseball giallo che non toglie nemmeno per andare a dormire. Quello che ancora ignoriamo e’ che il caro signore e’ il più grande tifoso della squadra in questione ed ha organizzato un mega party notturno, con karaoke incorporato, proprio nel cortile della guesthouse. Alle due di notte l’ultimo invitato, ormai solo ed in evidente stato etilico, smette di cantare e ci solleva dal latrato disperato che si insinuava sotto la porta impedendoci di dormire. Ma alle sette del mattino, come in un incubo, la musica si riaccende, gli operai fischiettano e un trapano allegro ricomincia a martellare… Vabbe’, andiamo a dormire in spiaggia, sotto una noce di cocco..

Messico e nuvole

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Giorno 166.

A Vigan sembra di essere in Messico. È l’ultimo esempio ben conservato di architettura coloniale spagnola sopravvissuto alle guerre, ai bombardamenti ed alle catastrofi naturali che bersagliano in continuazione il paese, tipo tifoni e terremoti. Ci arriviamo grazie ad una combinazione incredibile di mezzi di trasporto dalla carrozzeria sgargiante e tempestata di steakers e di slogan appiccicati in un inglese malfermo, come “Dio e’ uno di noi”, ” La via dell’amore” oppure “I cowboys sono tornati”. Il Jeepney e’ un mezzo indescrivibile che sostituisce gli autobus nelle tratte meno frequentate, offre due file di panche in un cassone coperto, trainate da un muso lungo riccamente decorato, stile camion americano. Il tricycle invece rappresenta la versione filippina del moto-taxi asiatico, ed e’ praticamente un sidecar adibito al trasporto passeggeri, da uno fino a nove, in un gioco di tetris fatto di gambe e braccia.

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La cittadina e’ assolata e desolata nell’afa pomeridiana, che le conferisce un aspetto ancora più latino. Qui l’Asia incontra l’Europa ed il Sudamerica, in un tripudio di chiese, piazzette e palazzi dall’aria famigliare. Non c’è moltissimo da fare, ma è piacevole gironzolare tra i vicoli alla ricerca di piccoli scorci da fotografare: portoni scrostati, turisti locali che se ne vanno in giro su calessini trainati da cavalli, un uomo che spinge il carretto dei gelati, una carrozza funebre che attende il prossimo cliente. Passiamo la serata mangiando gelati in Plaza Burgos, mentre i ragazzi del posto si sfidano in interminabili partite a basket, che nonostante la statura media sia alquanto bassa, pare essere lo sport nazionale.

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Le Filippine sono un paese ultra cattolico con un anomala quantità di chiese e basiliche talmente venerate come luoghi di culto da essere innalzate ad edifici dall’improbabile interesse artistico. Gli altarini della vergine soppiantano i tradizionali tempietti asiatici agli incroci delle strade. Tutti, quando vengono a sapere che siamo italiani, ci chiedono con aria costernata delle dimissioni del Papa e di cosa succederà dopo. Siccome a noi non importa una mazza della questione, rispondiamo loro con frasi di circostanza piuttosto vaghe e alquanto sfuggenti…

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Dentro il vulcano…

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Giorno 164.

Quando atterri alle Filippine, ti rendi conto che stai entrando in un Asia diversa. Unico territorio del continente ad essere colonizzato dagli spagnoli prima e dagli americani poi, l’arcipelago ti accoglie con un calore quasi latino. Per noi e’ una novità assoluta, nessuno dei due e’ mai stato qui in precedenza, per cui siamo eccitati come bambini la mattina di Natale. Una cosa che si nota a prima vista e’ la diffusione dell’inglese: chiunque riesce ad esprimersi piuttosto bene, e questo facilita notevolmente le interazioni personali. Però quando si esprimono nella propria lingua, il Tagalog, i filippini mantengono una cadenza spagnola, oserei dire sudamericana, impressionante: purtroppo non si capisce una mazza, ma sembra lo stesso di essere in mezzo a Lisseth ed ai suoi parenti ecuadoriani!

Delle circa 7000 isole, scegliamo di visitare per prima quella di Luzon, la più grande per intenderci, sulla quale si trovano sia la capitale Manila che alcune attrattive naturali molto interessanti, tra cui il Monte Pinatubo, che è la nostra prima tappa. Nel paesino di Santa Juliana, sperimentiamo la grande ospitalità dei locals: tutti ci salutano, si fermano a chiacchierare, ci invitano a bere qualcosa con loro o addirittura a cantare una canzone! Il karaoke sembra essere il passatempo nazionale, da soli o in compagnia. A qualsiasi ora del giorno e della notte c’è sempre qualcuno che inonda l’etere con melodie più o meno piacevoli, a seconda che il cantante sia un usignolo intonato o la versione canterina di Jack lo squartatore… Qui conosciamo Alvin ed Angie, una coppia che ha da poco aperto l’unica guesthouse della zona, e tramite loro organizziamo l’escursione del giorno seguente al Monte Pinatubo, che per inciso e’ il vulcano responsabile delle più grande e spettacolare eruzione del Ventesimo secolo.

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Prima del marzo del 1991, l’area era abitata dalla tribù degli Aeta, organizzati in piccoli villaggi, che da secoli si erano rifugiati sulle pendici del vulcano per sfuggire alla colonizzazione spagnola ed al fanatismo religioso che l’accompagnava. Tutti, perfino gli anziani, ignoravano l’esistenza di un vulcano nei paraggi, perché fino ad allora se n’era sempre stato tranquillo, avvolto com’era in una corona di montagne e coperto da una lussureggiante foresta tropicale. Però quando i sismografi iniziarono a registrare una strana e forte attività sismica nella zona e la popolazione locale a rilevare fumi gassosi uscire minacciosi dalla cima della montagna, le autorità decisero di di evacuare completamente la zona in previsione di un’esplosione imminente. Il 16 giugno del 1991, preceduta da alcune eruzioni minori, la cima del vulcano letteralmente esplose, lanciando nell’atmosfera una colonna di fumo alta venticinque chilometri. Le ceneri oscurarono il cielo per mesi, tanto che la temperatura media mondiale quell’anno diminuì di mezzo grado. L’eruzione fu così violenta che l’intera sommità del vulcano esplose in una pioggia di massi. Oggi la cima e’ più bassa di oltre 300 metri, mentre tutta l’area circostante e’ stata ricoperta da un fiume di lava e cenere che ha spazzato via ettari di foresta. Ci racconta Alvin, all’epoca un ragazzo, che nonostante gli ordini di evacuazione suo padre ed altri capofamiglia decisero di restare a proteggere le proprie case, rifugiandosi sui tetti a spazzare la cenere per evitare che l’eccessivo accumulo li facesse crollare. Degli eroi, in pratica.

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Saliamo sul pick up insieme a due coreane svampite che non spiccicano una parola di inglese e che stravedono per la loro polaroide rosa di Hello Kitty. Gli ultimi baluardi di civiltà spariscono in una nuvola di polvere grigia, mentre inforchiamo il silenzio di uno sconfinato deserto di lava. La strada percorre il letto dissestato di un ampio fiume in secca, incastrato tra scoscesi pendii di roccia sui quali inizia a spuntare una timida vegetazione. Spesso la jeep deve guadare quello che ci sembra appena un piccolo ruscello, ma che nella stagione delle piogge si trasforma in un torrente impetuoso responsabile di terribili alluvioni e che rende inaccessibile la cima.

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Ai piedi di una gola scavata nel flusso di lava da un corso d’acqua secondario inizia la nostra camminata. Sotto un sole implacabile, percorriamo in dolce salita gli ultimi cinque chilometri che ci separano dalla vetta. Le coreane strisciano di ombra in ombra, terrorizzate come vampiri dalla luce solare, ma nonostante si affannino a sfruttare ogni anfratto ombroso finiranno la giornata bruciate come peperoni al forno. In quello che era il cratere del terribile Pinatubo oggi si adagia un ceruleo specchio d’acqua, con sfumature color smeraldo. Le acque sono invitanti, ma purtroppo non si può fare il bagno da quando due mesi fa un turista filippino ubriaco ha pensato bene di farsi venire un infarto e di annegare mentre sguazzava nel lago. Intorno a noi si accalca una sinfonia di canti d’uccelli. Ci sediamo coi piedi a mollo nelle acque solforose e ci facciamo uno snack, mentre cerchiamo di immaginare quando quest’oasi di pace ribolliva come il centro dell’inferno.

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Sulla via del ritorno visitiamo uno dei villaggi che si affacciano sul canyon scavato nella lava. Una manciata di capanne di paglia e legna, una grande chiesa in mattoni e lamiera, la povertà che dilaga nella calura pomeridiana. Un fiume di bambini mocciolosi ci accoglie curiosi, mentre altri usano il cassone di una jeep come discoteca mobile. Le donne si spulciano a vicenda come scimmie, in una caccia spietata ai primi capelli bianchi. Impossibile non notare che tra loro non ci sono anziani. Gli Aeta hanno vissuto per secoli di raccolta, grazie alla ricchezza della flora in cui erano immersi, ma dopo il disastro sono stati costretti a dedicarsi ad una magra agricoltura di sussistenza. A distanza di anni, la foresta tropicale inizia a rimpossessarsi dei fianchi di questa montagna amputata, mentre la desolazione pian piano si attenua e la vita riprende il sopravvento sull’immane distruzione che completa un ennesimo ciclo della natura.

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