Giorno 176.
Sagada e’ un villaggetto di montagna dove case foderate di lamiera si incastrano fra taglienti picchi di roccia, in una vegetazione quasi alpina. La località e’ famosa per le hanging coffins, letteralmente bare appese. Secondo la pratica animista, colorate bare di legno vengono fissate alle pareti rocciose, o impilate all’interno delle numeroso grotte sparse nella zona come immense piramidi mortuarie, dando origine a questa tradizionale forma di sepoltura, mantenuta poi anche dopo la conversione al cristianesimo. Qualche sedia appesa accanto alle bare sembra aspettare chi vuole offrire ai defunti un po’ di compagnia, o forse sono lasciate li’ agli spiriti, nel caso in cui si stufassero di stare sdraiati. Qua e la’ un cartello prega i turisti di non trafugare ossa o altri resti, anche se stento a credere che qualcuno abbia voglia di farlo, ma con i turisti locali non si può mai dire…
Il momento clou della visita si concretizza nell’ennesima escursione in grotta. Prenotiamo quella lunga, la Cave Connection la chiamano, perché entri da una bocca nella montagna e ne esci dall’altra parte. Sono tra le quattro e le cinque ore di discesa, per un dislivello di centosessanta metri nel buio totale. La guida e’ obbligatoria grazie al cielo, perché la difficoltà del percorso e’ massima: livello esperti, cioè very hard. Sprizzo gioia da tutti i pori e se non fosse che Fede mi abbocca con una colazione a base di torta limone e miele, non riuscirebbe nemmeno a farmi uscire di casa.
Larry e’ il più bel manzo filippino mai visto fino ad ora. Salta da una roccia all’altra in un paio di infradito più vecchie di lui, mentre regge sulla testa una lanterna ad olio che peserà almeno cinque chili. Noi procediamo lentamente, con la prudenza degli indecisi che ancora non sanno cosa li aspetta. Seguiamo la sua scia luminosa, mentre le ombre si proiettano sulle pareti ruvide, piene di riflessi. Affrontiamo la maggior parte della traversata scalzi, perché umidità ed infiltrazioni d’acqua rendono il percorso insidioso e sdrucciolevole. Detesto camminare a piedi nudi nel buio, penso continuamente a ragni e serpenti, e’ più forte di me. Comprendiamo immediatamente perché l’ausilio di una guida locale sia fondamentale, visto che dopo l’immensa caverna di ingresso il tunnel si frammenta in una miriade di biforcazioni sotterranee che trasformano la montagna in un labirinto per talpe esperte. Dopo il primo quarto d’ora infatti incontriamo una coppia di turisti filippini già in età e nemmeno troppo sportivi, che non saprei se definire folli o temerari. Li raccattiamo mentre vagano indecisi come bimbi sperduti, forse alla ricerca di molliche di pane, salvandoli da morte certa.
Il percorso e’ davvero impegnativo e le emozioni non mancano. Ad ogni bivio, la via giusta e’ sempre la più impervia, il classico buco nero che uno non sceglierebbe mai. Ci caliamo dentro pozzi verticali tanto stretti da dover tenere il fiato e scaliamo cascate di travertino appesi a corde fissate da qualche parte nel buio, sopra le nostre teste. Nel passaggio più difficile Larry aiuta la donna filippina inginocchiandosi e facendola salire sulle spalle. Io osservo attentamente perché subito dopo e’ il mio turno. A questo punto la signora reggendosi alla corda dovrebbe arrampicarsi per un paio di metri fin dove il marito, salito per primo, funge da secondo aiutante verso l’ascesa finale. Purtroppo l’intrepida scivola e inizia ad ondeggiare, tipo Tarzan su una liana, proprio sopra il baratro che scende a picco verso il fondo della grotta. Larry scatta fulmineo e riesce ad acchiapparla, mentre la poveretta urla e ad occhi chiusi stringe ferocemente la corda cui è appesa. Perfetto, adesso tocca a me, Larry sorride ma leggo la tragedia scampata nei suoi occhi. Mi aggrappo con tutte le mie forze e mi giro pure verso Fede per una foto ricordo, anche se direi che terrorizzata e pallida sono gli unici due aggettivi che mi si addicono in questo momento.
Superiamo la prova della grotta indenni, anche se l’immagine della donna penzolante ci rimarrà ben impressa nel cervello. All’imbrunire ci aggiriamo in cerca di cibo, con quel vago senso di euforia che ti accompagna quando senti di aver misurato le tue forze in un’impresa più grossa di te. Più tardi incontriamo un danese grasso che rientra al villaggio stremato. Imbarazzato ci racconta di aver passato il pomeriggio incastrato in un passaggio della grotta, come un tappo di bottiglia infilato in un collo troppo stretto. Ridiamo sotto i baffi mentre immaginiamo la guida che cerca di stapparlo ungendolo come una cotoletta, nel vano tentativo di farlo scivolare dentro il pozzo. Poi guardo Fede e ringrazio il cielo che abbia perso qualche chilo durante il viaggio, perché davvero ci mancava solo questa.